sabato 28 dicembre 2019

La Biologia e' Musica



La Biologia e' Musica

scopri il nuovo libro di Emiliano Toso

Nuova Biologia


Cosa hanno in comune le nostre cellule con la musica? E il nostro DNA? È vero che il nostro codice genetico è come uno spartito che possiamo interpretare in molti modi diversi? Emiliano Toso ci spiega nel suo nuovo libro i parallelismi tra musica e biologia

Redazione Scienza e Conoscenza - 18/12/2019

Ognuno di noi ha ricevuto, nel momento stesso del concepimento, un libretto di spartiti – il DNA – che non è mai stato su questa terra in nessun altro essere vivente: le più recenti ricerche in campo epigenetico oggi ci dicono che il modo in cui suonare quello spartito dipende da noi, dai nostri comportamenti e dalle emozioni che proviamo ogni giorno.

Sappiamo anche che la vibrazione – come ci insegnano le antiche tradizioni sapienziali e spirituali, una tra tutte l’Ayurveda – è alla base della nascita dell’universo e della vita: ogni nostra cellula vibra in un’armonia corporea che risuona insieme a quella cosmica in una grande sinfonia sincronica.

Ecco allora spiegato non solo il fascino che da sempre la musica provoca sull’animo umano, ma il potenziale trasformativo in senso epigenetico che essa può attuare sulla nostra biologia, aiutandoci ad evolvere nella migliore e più appagante versione di noi stessi.

Questo primo libro di Emiliano Toso – che raccoglie i suoi principali contributi apparsi sulla rivista «Scienza e Conoscenza» – è uno straordinario connubio di scienza e arte, biologia e musica, ragione e purissimo sentimento.


La Biologia è Musica - Ebook

Dal DNA alla vibrazione di ogni singola cellula: la vita è un intreccio di frequenze danzanti

indice

Prefazione

Capitolo 1
La musica come nutrimento

Capitolo 2
Musica per le cellule

Capitolo 3
La biologia è musica

Appendice
Sentire non basta: cosa significa ascoltare?
a cura di Dario Giardi


Emiliano Toso è Musicista Compositore e Biologo Cellulare attento alle nuove prospettive dell’Epigenetica e della Nuova Biologia. Con il supporto del biologo americano Bruce Lipton ha creato e sta diffondendo nel Mondo il suo progetto Translational Music. La sua musica promuove stati di rilassamento, riduce i livelli di stress e aumenta l’attenzione e la creatività; viene utilizzata da scuole, ospedali, centri di cura e benessere, scienziati internazionali e gruppi di lavoro nel campo della salute, dell’educazione, del coaching e della gravidanza. I suoi articoli sono apparsi su testate nazionali e ha partecipato a servizi del TG2 e di Studioaperto. Viene invitato in Europa e in America a conferenze internazionali in cui viene trattata l’integrazione tra Arte e Scienza per il benessere dell’Uomo e della Natura.

eBook - La Biologia è Musica >> http://bit.ly/361p6Wf
Dal DNA alla vibrazione di ogni singola cellula: la vita è un intreccio di frequenze danzanti
Emiliano Toso (Musicista)

venerdì 27 dicembre 2019

Siamo tutti telepatici? Trasmettere il pensiero...



Siamo tutti telepatici? Trasmettere il pensiero: lo spiega la fisica quantistica

Psicologia Quantistica


Quante volte ci capita di pensare ad una persona e dopo un pò vederla comparire dinanzi ai nostri occhi?
Pensare ad un amico e ricevere una sua telefonata?
Pensare ad un evento o una situazione e vederla realizzata concretamente?
Quante volte ci capitano queste assurde e sconosciute dinamiche?

Carmen Di Muro - 25/12/2019

Molto spesso crediamo che le dinamiche insite nel pensiero umano possano essere spiegate esclusivamente dalle varie discipline specialistiche che si dedicano all’analisi e alla conoscenza dei suoi processi e delle sue attività specifiche. Ma seppure le attuali scienze cognitive hanno fatto passi da gigante, ancora molto buio regna in merito all’enorme potenziale, trasformativo ed agente, racchiuso all’interno di ogni individualità.
Il più delle volte, non siamo consapevoli degli scambi energetici che avvengono tra noi e il mondo esterno. La nostra attenzione rivolta alla concretezza delle cose rischia, infatti, di farci perdere di vista l’esistenza di altre informazioni. Eppure tutto è contenuto in noi e noi non siamo separati dal mondo fisico che ci circonda, ma siamo inseriti in un’unità spazio-temporale, in un campo energetico organizzato che “inventa” la materia. Nella profondità delle nostra carne noi siamo “quanti di energia” che in un movimento armonioso si legano con le frequenze informate presenti nel campo gravitazionale di cui siamo parte.

I nostri apparati sensoriali sono specializzati nella captazione di determinate frequenze esterne e trasformano in impulsi neurali le sole frequenze vibratorie che riescono a cogliere. Ecco perché molto ancora ci sfugge. Ma ciò che non vediamo non è detto che non esista. Non a caso molte manifestazioni della coscienza ancora inspiegabili vengono etichettate come “fenomeni PSI” e relegate nell’ambito di quelle discipline che non trovano dimostrazione a livello empirico.

Infatti oggigiorno lo studio del pensiero procede sulla base di dati oggettivi e misurabili. La maggior parte degli studiosi conviene sulla considerazione che i nostri processi intellettivi siano da attribuire all’attivazione di ampie aree neurali e di unità di elaborazione specializzate del nostro cervello e che il pensiero sia definibile semplicemente come un’estensione della percezione e della memoria. Tuttavia questa definizione, seppure accettata e condivisa dalla comunità scientifica, non rende merito al pensiero e alla sua complessità, ma soprattutto appare difettiva nella spiegazione di quei fenomeni che ognuno di noi sperimenta nel corso della propria esperienza quotidiana.

Siamo tutti telepatici?

La trasmissione del pensiero, ciò che la parapsicologia annovera sotto il nome di telepatia è parte di ogni essere umano, è parte e fondamento della nostra sensibilità e del potere immenso che risiede nella nostra unicità. Pensiamo per esempio a due gocce di pioggia: esse, essendo composte dallo stesso elemento ovvero l’acqua, si legheranno immediatamente dando vita alla formazione di una goccia più grande. Ciò non capita, quando, al contrario, troviamo due elementi che differiscono per composizione, come una goccia di olio ed una di acqua. Essi non si legheranno immediatamente, in quanto la propria composizione negherà il legame o lo permetterà in modo del tutto diverso.

Stessa dinamica vale per i pensieri. Quando posseggono in sé la stessa intensità vibratoria si legheranno immediatamente, al contrario quando questi avranno vibrazioni differenti, l’accordo invece diventerà difficoltoso. Nel momento in cui noi siamo centrati su pensieri che sono polarizzati sul versante positivo o negativo entreremo in risonanza con persone che producono in misura uguale alla nostra, pensieri della stessa qualità ed intensità vibrazionale. Ci accorderemo ad altre volontà pensanti, a prescindere dal luogo, poiché il nostro pensiero in movimento si propaga velocemente nell’intero campo vibrazionale andando a sintonizzarsi con onde della stessa polarità. Stesso vale per le situazioni e gli eventi che ci accadono. Tra le infinite possibilità insite nel Campo Unificato che tutto informa, quella che risulterà in maggiore risonanza con noi, collasserà nel materico, assumendo con il tempo manifestazione concreta.

Il fenomeno della telepatia, della cosiddetta trasmissione del pensiero, è un processo naturale, perché nel momento in cui la nostra energia profonda è centrata su una vibrazione piuttosto che su un'altra, richiamerà a sé vibrazioni simili che entreranno subito in risonanza con quest’ultima. Ed ecco che a livello manifesto penseremo a una persona e questa ci chiamerà, la incontreremo per caso dopo averla pensata o vivremo situazioni che avevamo già sperimentato a livello ideatorio ed immaginativo.

Scienza e Conoscenza n. 64 - Rivista Cartacea >> http://bit.ly/2PSx3rV
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Autori Vari

lunedì 23 dicembre 2019

La musica riduce lo stress: ce ne parla Emiliano Toso



La musica riduce lo stress: ce ne parla Emiliano Toso

Medicina Integrata


L’ascolto della musica combatte stress e infiammazione: ce lo dicono numerosi studi scientifici

Emiliano Toso - 23/12/2019

La musica è una prerogativa essenziale per ogni forma di vita.

Fin dalle origini dell’uomo, e oltre ai confini dello spazio e del tempo, il nostro corpo fisico, emozionale e spirituale è attratto da alcune situazioni: sensazioni di benessere, di calma, di salute, di conforto; sono tutti modelli che ricerchiamo da sempre, un po’ come la luce, il buon cibo, l’esercizio fisico, il riposo, la cura verso il nostro corpo,

Sebbene l’utilizzo della musica sia riconosciuto come un grande strumento di aiuto in ogni epoca storica e in ogni cultura esistita sulla Terra, non è mai stato semplice quantificare in modo completo gli effetti terapeutici dell’ascolto a livello biologico e medico.

Ciò potrebbe essere determinato dalla mancanza di strumenti adatti alla misurazione in quanto, soprattutto quando si fa esperienza della musica, entrano in gioco innumerevoli fattori tra cui la soggettività dell’ascolto e gli strumenti di misura.

Tuttavia negli ultimi anni, grazie ai progressi della scienza, della strumentazione utilizzata nell’analisi e soprattutto all’integrazione della medicina tradizionale con quella chiamata “di confine”, l’uomo ha portato a termine preziosi studi che testimoniano in modo profondo i benefici dell’ascolto della musica a tutti i livelli del nostro corpo, dimostrando le dinamiche celebrali che portano al piacere dell’ascolto, i corrispondenti effetti a livello biochimico e biofisico e i relativi benefici a livello terapeutico.

Emozioni, cervello e ormoni
Esistono molti studi in letteratura che descrivono la relazione tra l’ascolto della musica, le emozioni, le diverse parti del cervello e gli ormoni coinvolti in questi meccanismi.

A livello fisico ci sono studi che hanno dimostrato gli effetti della musica sul battito cardiaco, la frequenza respiratoria, la sudorazione, la temperatura corporea, la conduttanza della pelle, la tensione muscolare e altre risposte del sistema nervoso autonomo (Blood et al. 1999) e ciò dimostra, già a livello terapeutico, il motivo per cui la musica venga utilizzata per un bilanciamento fisico e fisiologico, per il radicamento a terra o per una maggior centratura.

L’ascolto della musica ha anche dimostrato di intervenire nelle dinamiche che riducono il dolore, l’ansia e lo stress (DiLeo 2007, Nilsson 2008 e Koelsch 2012). Ogni organismo vivente ricerca il mantenimento dell’omeostasi e lo stress può essere definito come una risposta neurochimica alla perdita di equilibrio omeostatico, spingendo l’organismo a impegnarsi in attività che lo possano ripristinare; la musica è dunque in queste attività che riducono lo stress e sono altamente protettive nei confronti della malattia (Dimsdale 2008).

L’ascolto di musica rilassante (tempo lento, bassa intonazione e assenza di parole) ha dimostrato di ridurre i livelli di stress e ansia in soggetti sani (DiLeo 2007, Knight 2001), in pazienti che ricevono trattamenti invasivi come operazioni chirurgiche, colonscopia, interventi dentistici (Nilsson 2008), operazioni pediatriche (Dileo 2007) e pazienti con problemi cardiaci (Bradt 2009).

Gli effetti della musica sono stati dimostrati anche al termine degli interventi chirurgici per ridurre le dosi di anestesia (Cepeda 2006) e nella cura del dolore.

Un interessante studio pubblicato da Khalfa et al. 2003 ha rilevato gli effetti della musica sulla riduzione dello stress associato alla performance a scuola e al lavoro e riporta un abbassamento più rapido del cortisolo (noto marcatore dello stress) nei soggetti che hanno ascoltato musica rilassante ogni 15 minuti fino a 2 ore dal termine del lavoro.

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Scienza e Conoscenza n. 65 - Luglio-Settembre 2018 >> https://goo.gl/oH72LH
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mercoledì 11 dicembre 2019

Cancro e Alimentazione



Cancro e Alimentazione

Alimentazione e Salute


I principi dell'alimentazione preventiva e curativa: cosa mangiare e cosa non mangiare per prevenire i tumori partendo dall'alimentazione e dagli stili di vita

Paolo Giordo - 11/12/2019

Parlare di cancro oggi è come inoltrarsi in un campo pieno di dolore, delusione, impotenza.
Esso rappresenta una delle maggiori cause di morte del mondo occidentale.
Ma non è sempre stato così. Nei tempi antichi era una patologia estremamente rara e sporadica e, in alcune culture, pressochè sconosciuta.
Nei sacri testi della medicina indiana antica (I sec. d.C.) comincia timidamente a comparire e subito viene messo in relazione, insieme ad altre malattie, con il progressivo deterioramento dell'alimentazione e l'allontanamento dai cibi semplici offerti dalla natura.

Con il passare dei secoli lo ritroviamo ai primi posti nelle classifiche di incidenza e mortalità, dopo aver assistito a un cambiamento profondo del nostro modo di vivere e di alimentarci.
La relazione tra tali eventi apparirebbe chiara alle persone di buona volontà e di normale intelletto, invece, per fronteggiare questa patologia, si è dovuto costruire un armamentario terapeutico e tecnologico che, nel tempo, non ha portato a nulla di più che a una certa precocità della diagnosi.

Questo enorme apparato ha però divorato ingenti risorse economiche che gli stati hanno generosamente concesso, senza apparentemente chiedere nulla in cambio, se non il funzionamento del sistema stesso.

La ricerca indipendente

Ma è proprio vero che il mondo del cancro e la ricerca su di esso debbano essere ineluttabilmente predeterminati?
Molti studiosi, negli anni, hanno cercato di percorrere strade diverse rispetto a quelle tradizionali, e quasi sempre con ottimi risultati, ma si sono dovuti scontrare con un apparato immensamente potente che li ha delegittimati e ridotti al silenzio. È il caso di Cooley, Breuss, Moermann, Bonifacio, Gerson, Kousmine, Pantellini, Hamer, Di Bella e altri ancora.
L'accusa mossa a questi ricercatori è sempre stata la stessa: l'inefficacia terapeutica (vedi le famose sperimentazioni/beffa sul metodo di Di Bella e prima ancora su quello di Bonifacio) e la mancanza di studi pubblicati su riviste scientifiche accreditate che sono, in genere, direttamente finanziate dalle multinazionali farmaceutiche, pertanto tutt'altro che indipendenti.
Allora cosa rimane da fare dopo essersi scontrati con i famosi mulini a vento?
Credo che convenga riprendere un antico percorso di salute e di ricerca, cioè quello rappresentato dall'alimentazione.
Evidentemente il mondo è molto cambiato per potersi nutrire direttamente dalla natura senza la mediazione del supermercato, ma rimangono ancora preziosi margini di intervento.
La trofoterapia, ovvero la cura attraverso il cibo, dovrebbe ripristinare l'equilibrio biologico del nostro corpo soddisfacendo tre istanze fondamentali:

- ripristinare l'equilibrio acido-base che dovrebbe essere lievemente alcalino per compensare l'acidosi, terreno fertile per infiammazioni e malattie degenerative;
- ridurre lo stress ossidativo per limitare i danni che le cellule e i tessuti subiscono ad opera dei radicali liberi, qualora siano in eccesso;
- apportare una maggiore quantità di micronutrienti che, nella moderna alimentazione industriale, sono man mano andati perduti e che invece il nostro organismo reclama per le sue funzioni biologiche: vitamine, minerali, oligoelementi, enzimi.

I principi dell'alimentazione preventiva e curativa

In primo luogo dobbiamo evitare di intossicarci ulteriormente prediligendo alimenti biologici privi di sostanze chimiche estranee e tossiche come pesticidi, erbicidi, concimi chimici oltre a tutti i molteplici additivi alimentari come i conservanti, coloranti, edulcoranti che, oltre a mascherare le carenze organolettiche dei cibi di pessima qualità, presentano frequentemente un'azione cancerogena.

Inoltre è sempre meglio scegliere i cibi integrali, specie i cereali, che sono ricchi di minerali, fibre e acidi grassi essenziali, sostanze in grado di apportare quei micronutrienti dei quali il nostro corpo ha un disperato bisogno.

Ci sono molti alimenti di uso pressoché quotidiano che, oltre a soddisfare le condizioni riferite in precedenza, possiedono anche una vera e propria azione anticancro.

- Parliamo della famiglia delle Crucifere e Brassicacee cioè i cavoli, i broccoli, i cavolini di Bruxelles, il crescione, le rape, la verza ecc. che attraverso alcune sostanze in essi contenute (isotiocianati, ditioltioni, indolo-3-carbinolo), sono in grado di sviluppare un'azione antitumorale diretta, un'azione antiproliferativa, e un'altra disintossicante dai carcinogeni assunti.
- Altri alimenti solforati (detti così in quanto contengono zolfo organico, fondamentale per i nostri meccanismi di difesa) sono quelli appartenenti alla famiglia delle Alliacee come l'aglio, la cipolla, il porro, lo scalogno, l'erba cipollina, che rivestono un ruolo protettivo contro i tumori estremamente potente ed efficace. È necessario aggiungere che tutti questi ortaggi, per esplicare pienamente la loro azione, devono essere consumati crudi o, in alternativa, cotti brevemente al vapore per preservare i loro principi attivi che sono frequentemente termolabili.
- Inoltre i frutti di bosco (lampone, mirtillo rosso e nero, ribes, ecc.) sono ricchi di sostanze anticancro efficaci come l'acido ellagico, fenilico e clorogenico, inoltre contengono dei pigmenti ad azione antiossidante.
- Gli stessi agrumi (arance, limoni, mandarini, ecc.) sono ricchi di polifenoli e flavonoidi e mostrano interessanti proprietà in campo oncologico. È nota, infatti, la relazione tra l'abbondante consumo di agrumi freschi ed il basso rischio di sviluppare tumori specie quelli a carico dell'apparato digerente.
- I legumi (fagioli, ceci, lenticchie, piselli, cicerchie, fave, soia, ecc), un tempo validi sostituti della carne, dovrebbero, a buon diritto, tornare ad esserlo. La ricchezza in principi antinutrizionali di questi alimenti (come i fitati e gli inibitori delle proteasi) ne ha evidenziato un'inedita azione anticancro. La combinazione dei cereali integrali con i legumi è sopravvissuta indenne nei secoli e può essere considerata uno dei punti di correttezza nutrizionale dell'antica dieta mediterranea famosa per gli effetti positivi sulle malattie cardiovascolari e degenerative tumorali.

Con questi alimenti si può sicuramente imbandire una tavola salutare ed economica, escludendo o riducendo drasticamente il consumo di proteine animali, specie quelle derivate da carni e latticini.

Infatti la celebre dieta mediterranea antica, riscoperta e valorizzata in tempi più o meno recenti, possedeva sicuramente un'azione antinfiammatoria e protettiva dall'insulinoresistenza, con conseguente riequilibrio metabolico e protezione dallo stress ossidativo. Essa era composta fondamentalmente da cereali integrali, pasta di grano duro, legumi, verdure non amidacee, olio di oliva, frutta, semi oleosi come olive, mandorle, noci, nocciole e, a seconda della possibilità o della collocazione geografica, alcune quantità di pesce appena pescato.

La dieta mediterranea, in uso nei paesi dei quali anche l'Italia fa parte, da simbolo di correttezza nutrizionale è approdata, dopo infiniti stravolgimenti, alla nostra alimentazione industriale moderna con le conseguenze che tutti conosciamo.
La dieta occidentale moderna, infatti, si compone prevalentemente di pane e cereali raffinati, carni, salumi, formaggio, burro, margarine, patate, zucchero e dolciumi.
L'acqua o il poco vino rosso sono stati sostituiti dalle innumerevoli bibite gasate, colorate, dolcificate o dai superalcoolici e dagli alcoolici da supermercato (birre e vino nei cartoni), dei quali molto spesso si abusa.
Le sostanze chimiche contenute negli additivi alimentari, oltre a essere direttamente cancerogene, spesso fungono da interferenti endocrini sulla sintesi, secrezione e trasporto degli ormoni naturali del nostro corpo, predisponendolo a un ulteriore fattore di squilibrio.

Per questi motivi risulta fondamentale vigilare sulla corretta alimentazione della nostra famiglia e dei nostri bambini, i quali sono ancora più esposti all'azione nociva dell'alimentazione industriale moderna e rappresentano spesso il bersaglio preferito per promuovere la maggior parte dei cibi spazzatura.

Si può completare la nostra tavola della salute con l'uso frequente di altri alimenti come la curcuma, conosciuta da millenni e apprezzata oggi per le sue proprietà antinfiammatorie e antitumorali, il tè verde, da consumare frequentemente durante la giornata con i suoi polifenoli anticancro e l'azione antiossidante, i funghi medicinali, a cominciare dai nostri comuni champignons (agaricus bisporus), per finire con quelli di origine orientale dotati di spiccate doti di prevenzione e cura dei tumori e utilizzati, talvolta, in forma concentrata, anche dalla medicina convenzionale, in associazione ad alcuni chemioterapici per potenziare l'azione di questi ultimi e ridurne, al contempo, gli effetti collaterali. Anch'essi dovrebbero essere usati crudi.

Il digiuno: un valido strumento per rimanere in salute

Il campo dell'alimentazione naturale è molto vasto e apportatore di benefici visibili anche se, talvolta, può essere utile favorire maggiormente le capacità depurative del nostro corpo attraverso periodi più o meno lunghi di digiuno.
È risaputo che il digiuno arresta la progressione del cancro e ne favorisce la regressione.
Nei primi decenni del Novecento, Rudolf Breuss, un naturopata tedesco, proponeva la sua cura del cancro attraverso un digiuno di 42 giorni integrato da succhi di verdure. Il suo ragionamento era semplice: bloccare l'apporto proteico. Poiché il nostro corpo necessita anche di proteine per i suoi fabbisogni, sarà costretto a cercarle al suo interno dove ci sia qualcosa di superfluo e disgregabile come le masse tumorali. Breuss affermava di aver guarito oltre mille pazienti affetti da cancro avanzato ad opera dei suoi trattamenti.
In Italia un simile percorso fu portato avanti da Luigi Costacurta che associò al digiuno altre pratiche igienistiche e fornì una maggiore caratterizzazione scientifica al suo metodo nutrizionale. Su questi concetti sono fiorite in tutta Europa delle cliniche del digiuno assistito (ricordiamo che non tutti sono in grado di sottoporsi ad una prolungata privazione di cibo).
La qualità della nostra alimentazione si riflette direttamente su quella del nostro sangue e delle cellule di ogni organo del nostro corpo, compreso il cervello.
È plausibile, quindi, che il cancro possa risultare da un enorme squilibrio nutrizionale prolungato nel tempo. Nelle società tradizionali, dove il cibo è strettamente legato alla natura, il cancro è pressochè sconosciuto. Se prolunghiamo nel tempo la nostra alimentazione scorretta e il nostro stile di vita incongruo, il nostro corpo finirà per esaurire la capacità di eliminazione delle tossine esogene che impregnano il nostro sistema circolatorio e intestinale.
Quando le cellule perderanno la loro capacità di funzionare, cominceranno i processi degenerativi, aggravati e favoriti dall'ambiente acido che, nel frattempo, si sarà formato. Non è tardi per invertire questa tendenza e modificare tante abitudini sbagliate.
Forse è giunto il momento per cominciare a farlo.

Le ricette anti cancro

Le ricette anti cancro possono essere tantissime ma devono avere come ingredienti cereali integrali (specie riso, farro, grano saraceno) associati a verdure fresche sia cotte che crude e legumi.

Ecco alcuni esempi di preparazioni facili, veloci, economiche, variate e gustose:

pasta e fagioli,
riso con le lenticchie,
insalata di riso integrale e verdure,
minestra di fagioli e miso oppure di fave ed erbe di campo,
riso con mix di funghi cotti e crudi,
grano saraceno con la zucca, cavolo verza e radicchio rosso all'aceto balsamico,
cavolini di Bruxelles al vapore con carote e tamari,
zuppa toscana con fagioli, verdure e cavolo nero.

approfondisci su:

Scienza e Conoscenza n.70 - Ottobre/Dicembre 2019 — Rivista >> http://bit.ly/2BASRPZ
Nuove scienze, Medicina Integrata
AA. VV.

La Scelta Antitumore — Libro >> http://bit.ly/2RBtQNQ
Prevenzione, terapia farmacologica e stile di vita
Giuseppe Di Bella

lunedì 9 dicembre 2019

La fisica quantistica spiegata in modo semplice



La fisica quantistica spiegata in modo semplice

Medicina Non Convenzionale


Che cos'è la fisica quantistica? È la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e di tutte le loro interazioni. Scopri in questo interessante articolo tutto quello che non sapevi sulla fisica quantistica

Antonella Ravizza - 07/12/2019

La fisica quantistica è la teoria fisica che descrive il comportamento della materia, della radiazione e di tutte le loro interazioni viste sia come fenomeni ondulatori sia come fenomeni particellari (dualismo onda-particella), a differenza della fisica classica o newtoniana, basata sulle teorie di Isaac Newton, che vede per esempio la luce solo come onda e l’elettrone solo come particella.

Il dualismo onda–particella

Il dualismo onda–particella è la principale causa della messa in discussione di tutte le teorie della fisica classica sviluppate fino al XIX secolo. Questa teoria si può applicare anche alla luce, infatti Young per dimostrare che la luce si propagava per onde propose un esperimento: un fascio di raggi luminosi colpiva uno schermo in cui erano presenti due fori, o fenditure, molto piccoli, che diventavano due sorgenti omogenee. A questo punto mise uno schermo che raccoglieva la luce proveniente dai due fori e vide nettamente delle frange chiare e scure, molto simili alle onde del mare provenienti da due sorgenti diverse.

Questo fenomeno non si può spiegare con la teoria corpuscolare, ma con la teoria ondulatoria. Due onde della stessa ampiezza possono essere in fase e, se interferiscono, originano un'onda sinusoidale che è somma delle sue sinusoidi componenti; possono però essere in controfase e, se interferiscono, originano un'onda nulla. Questo esperimento è molto importante perché verrà ripreso in seguito da Richard Feynman.

Intanto nel 1803 gli atomi erano considerati i costituenti fondamentali della materia. Nel 1874 G. Stoney scoprì l’elettrone e poi Rutherford il nucleo atomico, caricato positivamente, circondato da elettroni carichi negativamente come il sole in mezzo ai pianeti del sistema solare. Però seguendo la teoria elettromagnetica di Maxwell sulle cariche in moto accelerato, si giunse alla conclusione che l’atomo avrebbe dovuto collassare, invece la materia che osserviamo continuamente è stabile. A cavallo tra il XIX e il XX secolo lo studio dell’effetto fotoelettrico mise in discussione la completezza della meccanica classica, suggerendo che la radiazione elettromagnetica avesse il duplice comportamento ondulatorio e corpuscolare durante l’interazione con la materia.

L'effetto fotoelettrico

Infatti in certe situazioni, come messo in evidenza nel 1905 da Einstein con l'ipotesi del fotone nell'effetto fotoelettrico, la luce si comportava decisamente come composta da particelle. L’effetto fotoelettrico è il fenomeno che si manifesta con l'emissione di particelle elettricamente cariche da parte di un corpo esposto a onde luminose o a radiazioni elettromagnetiche di varia frequenza: gli elettroni vengono emessi dalla superficie di un conduttore metallico (o da un gas) in seguito all'assorbimento dell'energia trasportata dalla luce incidente sulla superficie stessa. Come diceva Planck la radiazione luminosa di frequenza ν è composta da particelle corpuscolari (fotoni) di energia E = h ν (h è la costante di Planck). Per riuscire a strappare un elettrone a una superficie metallica, l’energia del fotone deve essere più grande dell’energia di legame dell’elettrone nel metallo (W). Inserendo ora un amperometro fra anodo e catodo si misura così un passaggio di corrente. Se invece l’energia del fotone è inferiore a W non si ha effetto fotoelettrico, e l’amperometro non registra passaggio di corrente. La teoria ondulatoria classica prevedeva però che, all'aumentare dell'intensità della luce incidente, aumentasse l'energia degli elettroni emessi.

Nel 1902, il fisico tedesco Philipp Lenard mostrò invece che l'energia dei fotoelettroni non dipendeva dall’intensità di illuminazione, ma dalla frequenza (o dalla lunghezza d'onda) della radiazione incidente. L’intensità della radiazione determinava invece l’intensità della corrente, cioè il numero di elettroni strappati alla superficie metallica. Il risultato sperimentale era inspiegabile pensando che la natura della luce fosse solo ondulatoria.
Nel 1905 Albert Einstein spiegò l'effetto fotoelettrico con l'ipotesi che i raggi luminosi trasportassero particelle, chiamate fotoni, la cui energia è direttamente proporzionale alla frequenza dell’onda corrispondente: incidendo sulla superficie di un corpo metallico, i fotoni cedono parte della loro energia agli elettroni liberi del conduttore, provocandone l'emissione. Allora l'energia dell'elettrone liberato dipende solo dall'energia del fotone, mentre l’intensità della radiazione è direttamente correlata al numero di fotoni trasportati dall’onda, e dunque può influire sul numero di elettroni estratti dal metallo, ma non sulla loro energia. Era difficile credere che la luce presentasse una specie di dualismo, apparendo come onda o come particella a seconda degli esperimenti. De Broglie nel 1924 ipotizzò che tutta la materia manifestasse lo stesso dualismo.

L'esperimento della doppia fenditura

Nel 1927 Davisson e Germer ebbero la prova sperimentale di tale comportamento: osservarono figure di diffrazione facendo attraversare un cristallo di nichel da un fascio di elettroni (la diffrazione è un fenomeno associato alla deviazione della traiettoria di propagazione delle onde quando queste incontrano un ostacolo sul loro cammino). Nasceva da qui la possibilità di utilizzare fasci di particelle per eseguire esperimenti di interferenza con due fenditure, proprio come Young aveva fatto con la luce.

L’esperimento delle due fenditure permette di dimostrare la dualità onda-particella della materia. Richard Feynman ripeteva che questo esperimento era la chiave per comprendere la meccanica quantistica. Questa volta vennero usate lastre rilevatrici moderne e una sorgente estremamente debole di luce o elettroni. Aprendo soltanto una fenditura (ad esempio, quella di sinistra), sulla lastra fotografica si ottiene la proiezione della fenditura. Aprendo ora solo la fessura destra si forma una figura speculare a quella precedente. La luce risponde quindi perfettamente alla teoria corpuscolare di Newton. Ora, provando a prevedere che figura risulterebbe dall’apertura contemporanea di entrambe le fenditure, secondo la teoria corpuscolare si verificherebbe la semplice sovrapposizione delle due figure precedenti. In realtà, quella che si genera è una figura di interferenza, ovvero in questo caso la luce si comporta come un’onda meccanica: sulla lastra fotografica avremmo in alcuni punti sovrapposizioni di picchi o ventri, in altri cancellazioni. Ciò dimostra inequivocabilmente l'esistenza del dualismo onda-corpuscolo, sia della materia che della radiazione elettromagnetica.
Niels Bohr introdusse anche il principio di complementarità, secondo il quale i due aspetti, corpuscolare e ondulatorio, non possono essere osservati contemporaneamente perché si escludono a vicenda, ovvero il tipo di esperimento determina il successivo comportamento delle particelle in esso coinvolte.

Ma com’è possibile che un singolo elettrone si comporti come un’onda e faccia interferenza con se stesso?! Fino a quando l’elettrone non viene rivelato sul bersaglio, esso non si trova mai in un punto preciso dello spazio, ma esiste in uno stato potenziale astratto descritto da una funzione di probabilità, che si propaga come un’onda e non secondo una traiettoria definita.

De Broglie e Schrödinger tentarono di descrivere tutto il mondo quantistico in termini di onde, abolendo il concetto di particella. Ma per cogliere l’elettrone sul fatto, dobbiamo rivelarlo. La meccanica quantistica non ci permette di avere contemporaneamente la figura di interferenza e la conoscenza del singolo foro da cui l’elettrone è passato. O l’uno o l’altro: o l’elettrone viene rivelato come particella oggettiva, e quindi non produce interferenza, o è un’onda estesa, ed in tal caso non passa da un solo foro, bensì da tutte e due: è come se fosse passato da tutte e due.

Questo è un po’ come il conosciutissimo paradosso del gatto di Schrödinger: gatto vivo o gatto morto; non si sa fino a che non si vede il gatto effettivamente aprendo la scatola, altrimenti si considera vivo e morto contemporaneamente.
Erwin Schrödinger nel 1935 introdusse il termine di entanglement: se due particelle si fanno interagire per un certo periodo e quindi vengono separate, quando si sollecita una delle due in modo da modificarne lo stato, istantaneamente si manifesta sulla seconda un’analoga sollecitazione a qualunque distanza si trovi rispetto alla prima.

Il fenomeno dell'entanglement viola il «principio di località» per il quale ciò che accade in un luogo NON può influire immediatamente su ciò che accade in un altro. Ecco un esempio: due particelle vengono lanciate in direzioni opposte. Se la particella A, durante il suo tragitto incontra una carica magnetica che ne devia la direzione verso l’alto, la particella B, invece di continuare la sua traiettoria in linea retta, devia contemporaneamente la direzione assumendo un moto contrario alla sua gemella. Questo esperimento dimostra che le particelle sono in grado di comunicare tra di loro trasmettendo ed elaborando informazioni e dimostra anche che la comunicazione è istantanea.

Nell'Ottobre del 1998 il fenomeno dell’entanglement è stato definitivamente confermato dalla riuscita di un esperimento effettuato dall'Institute of Technology (Caltech) di Pasadena, in California. In conclusione, la meccanica quantistica nel microscopico ci ha condotto ad abbandonare la descrizione della fisica classica deterministica, per arrivare a una descrizione probabilistica in cui gli stati e le proprietà del mondo microscopico non sono determinati, a priori, intrinsecamente, ma acquisiscono realtà solo se vengono misurati o se entrano in contatto con altri “oggetti”.

Questo stravolge la descrizione di un mondo che fino al secolo scorso sembrava sensato e ragionevole. Chissà quali altre stravolgenti scoperte ci riserverà il futuro!

approfondisci:

Scienza e Conoscenza - n. 60 >> https://goo.gl/QZeXCT
Nuove scienze, Medicina non Convenzionale, Consapevolezza
Autori Vari

Scienza e Conoscenza - n. 53 - Rivista Cartacea >> http://bit.ly/372CAl8
Nuove scienze, Medicina non Convenzionale, Consapevolezza
Editore: Scienza e Conoscenza - Editore
Data pubblicazione: Luglio 2015
Formato: Rivista - Pag 80 - 19,5 x 26,5 cm

Scienza e Conoscenza - n. 59 - Rivista Cartacea >> https://goo.gl/QbKsWF
Nuove scienze, Medicina non Convenzionale, Consapevolezza

venerdì 6 dicembre 2019

Quantum Jazz



Quantum Jazz: quando la musica incontra la meccanica quantistica

Scienza e Fisica Quantistica
 

La fisica e la meccanica quantistica sono ancora incomprensibili ai più: Ignazio Licata con il suo concerto Quantum Jazz apre lo spazio all'immaginazione quantistica

Redazione Scienza e Conoscenza - 05/12/2019

Si sa che la fisica quantistica ha rivoluzionato il panorama classico introducendo i quanti, che sono entrati in scena come ipercinetiche figurine di Paul Klee con la musica di Stravinskij. Ma oggi in cui tutto è ormai quantistico – dai campi/particelle fino alla cosmologia – permane la fama di teoria “incomprensibile” ai più.

Tutto questo è dovuto sicuramente al fatto che la meccanica quantistica chiede uno sforzo cognitivo totalmente nuovo, che non è meno arduo per lo specialista come per il profano.

Niels Bohr sosteneva che è impossibile dare una rappresentazione di ciò che è lontano dall’esperienza quotidiana, dove si sono formati il nostro linguaggio e l’intuizione.

Dopo un secolo è ancora vero? Oggi che è possibile manipolare qubit in laboratorio, possiamo farci un’idea dei fenomeni non locali e dei sistemi quantistici?

Il “concerto” Quantum Jazz di Ignazio Licata costituisce un esperimento di comunicazione sui concetti della meccanica quantistica, ma soprattutto una guida all’immaginazione quantistica.


Iperspazio - Hyperspace — Libro >> http://bit.ly/2SDPjTW
Un viaggio scientifico attraverso gli universi paralleli, le distorsioni del tempo e la decima dimensione.
Michio Kaku

martedì 3 dicembre 2019

Che cos'e' la sofferenza?



Che cos'e' la sofferenza?

Ce ne parla il professor Guido Giarelli

Medicina Non Convenzionale


Viviamo in un tempo di grande sofferenza, un malessere sociale diffuso talora esplicito e mediatizzato, talora impalpabile, silenzioso e occultato dai mass media: come inquadrare questa situazione di disagio?

Carmen Di Muro - 03/12/2019

Forse come non mai, in questo periodo storico, la salute, la malattia e la medicina costituiscono i punti salienti per una visione privilegiata della società e delle sue trasformazioni, ma soprattutto della condizione umana. Da questa prospettiva di osservazione si colloca il contributo di Guido Giarelli, sociologo e professore di “Sociologia generale e della salute” presso l’Università ‘Magna Græcia’ di Catanzaro, Vice-President of ISA RC15 Sociology of Health, al quale va il merito, oltre di aver operato il superamento della storica frattura tra scienze biomediche e scienze sociali attraverso un nuovo paradigma connessionista – che per la prima volta in Italia ha visto l’inserimento organico delle discipline sociologiche in una Facoltà di Medicina – di donarci spunti dilatati per poter ricomprendere la complessità dell’essere umano e la multidimensionalità del reale, partendo da uno dei temi ontologici fondamentali, quale quello della sofferenza. Viviamo, infatti, in un tempo di grande sofferenza, un malessere sociale diffuso talora esplicito e mediatizzato, talora impalpabile, silenzioso e occultato dai mass media. Da qui prende le mosse il suo discorso scientifico sulla sofferenza che si snoda tra le righe del suo nuovo libro Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia del negativo nella società globalizzata edito da Rubbettino, in cui Giarelli offre un’analisi ad ampio raggio della dimensione esistenziale, come radicale significazione conoscitiva del rapporto inscindibile tra sé e mondo attuale, premessa indispensabile per l’iniziazione ad un’azione non moralistica, ma responsabilmente efficace.

Professor Giarelli lei ha scritto numerosi saggi. In rapporto al suo ultimo volume, lei parla di sofferenza come componente intrinseca della condizione umana. Cosa ha motivato il suo viaggio epistemologico?

Sino ad oggi non è esistita una riflessione sociologica, in generale scientifica, sulla sofferenza. Il concetto di sofferenza è stato bandito dalle scienze sociali e questo è abbastanza strano se pensiamo che, in fondo, le scienze sociali sono nate proprio per spiegare quei fenomeni come la povertà e l’alienazione, che in qualche modo implicano sicuramente sofferenza. Uno dei motivi di questa mancata considerazione del concetto di sofferenza nelle scienze sociali parte da una distinzione banale tra il dolore da un lato, visto come fatto puramente sensoriale e relegato all’ambito delle scienze neurologiche e mediche, e la sofferenza dall’altro, interpretata come una categoria più puramente psichica, appannaggio della psicologia e delle scienze sociali. Per superare questa distinzione triviale occorre tener presente, come già Illich ci ha insegnato, che “in ogni dolore c’è un’interpretazione che noi chiamiamo sofferenza”. Questo è il contributo precipuamente umano alla percezione del dolore, per cui quando noi percepiamo il dolore lo traduciamo mentalmente e culturalmente in sofferenza, secondo le categorie della nostra cultura. Viceversa siamo in grado, anche senza provare dolore, di soffrire nel momento in cui riteniamo che una determinata esperienza di vita ci produca sofferenza. La distinzione tra dolore e sofferenza va superata dal momento che tra le due c’è una stretta interconnessione, così come esiste una stretta relazione tra corpo e mente.

Lei è stato uno dei primi nel panorama nazionale a parlare di Medicina Narrativa. Qual è il potere della narrazione in medicina nel trasformare le storie di malattia e di sofferenza in storie di cura?

Preferisco parlare di “narrazione in medicina” piuttosto che di Medicina Narrativa perché, per chi non è addentro a questo ambito, il rischio è quello di intenderla come un approccio terapeutico, e infatti c’è chi utilizza le narrazioni in chiave terapeutica, ma questo non è il vero senso della narrazione in medicina. Si tratta, invece, di utilizzare la narrazione come uno strumento fondamentalmente metodologico che ci consente di tener conto in maniera più completa di quello che è l’incontro terapeutico, al di là della visione riduzionistica di questo incontro, che poi è quella che ha dominato fino ad oggi il panorama biomedico. Il potere della narrazione è il potere del simbolico, ovvero della nostra capacità di pensare alla realtà e di definirla secondo delle categorie culturalmente acquisite attraverso il processo di socializzazione. Da questo punto di vista, se consideriamo la malattia come un evento sociale che si realizza tra soggetto soffrente ed équipe terapeutica, la narrazione ci dona la possibilità di uscire dall’esclusivismo del punto di vista biomedico portandone alla luce molti altri. Non esiste un unico punto di vista sulla malattia, così come non esiste un unico modo di affrontarla, e la prima utilità della narrazione è quella di comprendere questa pluralità. La seconda utilità, che poi è quella fondamentale, è quella di andare a ridefinire la trama dell’incontro terapeutico, ovvero le relazioni che connettono tra di loro questi diversi punti di vista e le azioni conseguenti, in modo tale da mettere “la realtà al congiuntivo”, cioè al possibile, al fine di operare una modificazione dell’esistente tale da mettere in atto la cura e, possibilmente, la guarigione. Questo può avvenire se, una volta utilizzate le narrazioni per capire i diversi punti di vista, si cerca di ridefinire insieme un percorso, una diagnosi, una terapia e una riabilitazione, al fine di risolvere il problema che si sta affrontando.

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Scienza e Conoscenza n. 65 - Luglio-Settembre 2018 >> https://goo.gl/oH72LH
Nuove Scienze, Medicina non Convenzionale, Coscienza

lunedì 2 dicembre 2019

Riprogrammare le cellule attraverso il suono



Riprogrammare le cellule attraverso il suono

Nuova Biologia


Ogni cellula produce vibrazioni meccaniche, reagendo a suoni, oscillazioni dei campi magnetiti, luce: si tratta di energia fisica che può essere potenzialmente utilizzata per riprogrammare cellule malate verso l’autoriparazione

Carmen Di Muro - 29/11/2019

È possibile riparare cellule danneggiate con suoni, campi magnetici e luce? Secondo Carlo Ventura laureato in Medicina e Chirurgia presso l’Università di Bologna, Specialista in Cardiologia e di Ricerca in Biochimica questo sarò uno scenario sicuramente possibile nel prossimo futuro. Presso il laboratorio di Biologia Molecolare del CNR di Bologna, Ventura sta conducendo interessanti e avanguardistici studi sull’effetto delle vibrazioni sonore su cellule staminali umane adulte. Attraverso uno speciale microscopio a forza atomica Ventura ha scoperto come la cellula comunichi attraverso vibrazioni sonore a livello delle sue strutture subcellulari.

«Utilizzando campi magnetici opportunamente convogliati – dichiara Carlo Ventura in un’intervista apparsa su Scienza e Conoscenza 57 ci siamo resi conto che era possibile far acquisire a cellule staminali umane adulte (ottenute per esempio da tessuto adiposo) caratteristiche simil-embrionali, cosa che le ha rese in grado di orientarsi verso destini complessi, quali quello cardiaco, neuronale, muscolare, scheletrico».

Le ricerche di Ventura stanno contribuendo a cambiare il paradigma della medicina, le cui basi, si è rivelato, non sono soltanto chimiche, ma anche e soprattutto fisiche. Ogni cellula infatti produce vibrazioni meccaniche, reagendo a suoni, oscillazioni dei campi magnetiti, luce: si tratta di energia fisica che può essere potenzialmente utilizzata per riprogrammare cellule malate verso l’autoriparazione. L’autoguarigione – la vix medicatrix naturae come la chiamavano gli antichi romani riprendendo un motto di Ippocrate – è insita negli esseri viventi che continuamente riparano e rinnovano le proprie cellule, per fare solo un esempio pensiamo che ogni tre mesi rinnoviamo il 70% delle nostre cellule.

«Noi crediamo – conclude Ventura – che in base al potere diffusivo delle energie fisiche che utilizziamo per riprogrammare le cellule staminali (finora in vitro) sia possibile raggiungere le staminali dove queste si trovano, di fatto in ogni tessuto del corpo umano, senza dover necessariamente ricorrere a un trapianto di cellule esogene, ma piuttosto riattivando la capacità delle cellule staminali tessuto-residenti di innescare un percorso di autoguarigione».

Carlo Ventura ha fondato nel 2011 ha fondato il VID art/science, un movimento internazionale che mira a promuovere un approccio interdisciplinare tra scienziati e artisti, nella convinzione che ogni manifestazione artistica possa parlare alle dinamiche più profonde della nostra biologia.

Approfondisci il tema del suono su Scienza e Conoscenza 66

Scienza e Conoscenza n. 66 >> http://bit.ly/2PLGBoi
Rivista - Settembre 2018
Nuove scienze, Medicina Integrata, Coscienza

approfondimenti:

giovedì 28 novembre 2019

La biochimica delle emozioni - 2



La biochimica delle emozioni - 2

seconda parte

Nuova Biologia


Quando avremo dimostrato la misura in cui le emozioni (espresse tramite molecole e neuropeptidi) influenzano il corpo, diventerà chiaro come esse possono essere una chiave per capire la malattia

Candace Pert - 27/11/2019

A questo punto voglio introdurre nel quadro il sistema immunitario. Ho già spiegato che il sistema degli ormoni, che storicamente è stato considerato separato dal cervello, è concettualmente la stessa cosa del sistema nervoso. Grandi quantità di succhi sono rilasciati e si diffondono molto lontano, agendo tramite la specificità dei recettori in punti assai distanti da quelli che in cui vengono immagazzinati. Quindi, l’endocrinologia e la neuroscienza sono due aspetti dello stesso processo. Ora sosterrò che anche l’immunologia fa parte di questo sistema concettuale e quindi non andrebbe considerata una disciplina separata.

Una proprietà fondamentale del sistema immunitario è che le cellule si muovono. Altrimenti sarebbero identiche alle cellule fisse del cervello, con i loro nuclei, membrane cellulari e tutti i recettori. I monociti, per esempio, che ingeriscono gli organismi estranei, cominciano la vita nel midollo osseo, quindi si spargono viaggiando nelle vene e nelle arterie, decidendo dove andare in base a indizi chimici. Un monocite viaggia nel sangue e a un certo punto arriva sufficientemente vicino a un neuropeptide, e poiché il monocite ha nella sua superficie recettori per il neuropeptide, comincia letteralmente a “strisciare” per chemiotassi verso la sostanza chimica. Di questo esistono molte prove e ci sono ottimi modi per studiare il fenomeno in laboratorio.

Ebbene, i monociti sono responsabili non solo del riconoscimento e dell’eliminazione dei corpi estranei, ma anche della guarigione delle ferite e della riparazione dei tessuti. Quindi, ciò di cui stiamo parlando sono cellule fondamentali, alla base della vita.
La nuova scoperta che qui voglio sottolineare è che ogni recettore di neuropeptide che abbiamo cercato (usando un sistema elegante e preciso sviluppato dal mio collega Michael Ruff) esiste anche nei monociti umani. Questi ultimi hanno recettori per gli oppiacei, per il PCP, per un altro peptide chiamato bombasina, etc. Sembra che queste sostanze biochimiche che influenzano le emozioni controllino il percorso e lo spostamento dei monociti, i quali sono fondamentali per il sistema immunitario. Essi comunicano con le cellule B e T, interagiscono con tutto il sistema per contrastare la malattia, distinguere l’io dal non-io, decidere quale parte del corpo è una cellula tumorale da uccidere mediante cellule killer naturali e quali parti hanno bisogno di essere riparate. Spero che questo quadro vi si sia chiaro.

Un monocite è in circolazione dentro al sangue, quando la presenza di un oppiaceo lo attira, e può connettersi al neuropeptide perché ha il recettore per farlo. Di fatto, esso ha molti recettori per molti neuropeptidi.
Pare, inoltre, che le cellule del sistema immunitario non solo hanno recettori per questi diversi neuropeptidi, ma che producono da sole i neuropeptidi, come sta diventando sempre più chiaro. Esistono sottoinsiemi di cellule immunitarie che creano le beta endorfine, per esempio, e gli altri peptidi oppiacei. In altre parole, queste cellule immunitarie stanno producendo le stesse sostanze che secondo noi controllano l’umore nel cervello. Esse controllano l’integrità dei tessuti nel corpo e producono anche le sostanze chimiche che controllano l’umore. Ancora una volta, corpo e mente.

La mente come insieme di informazioni

Cosa significa questo tipo di connessioni tra corpo e cervello? Di solito a esse ci si riferisce come al potere della mente sul corpo. Per quanto mi riguarda, questa frase non descrive ciò che stiamo facendo. Io mi spingerei più in là. Tutti conosciamo il pregiudizio occidentale secondo cui la consapevolezza è unicamente nella testa. Io credo che le scoperte da me esposte dimostrano la necessità di cominciare a chiederci in che modo la consapevolezza può essere proiettata in varie parti del corpo. Quando avremo dimostrato la misura in cui le emozioni (espresse tramite molecole neuropeptidi) influenzano il corpo, diventerà chiaro come esse possono essere una chiave per capire la malattia. Sfortunatamente, la gente che pensa queste cose di solito non lavora in un laboratorio governativo.
La mia tesi è che le tre classiche aree della neuroscienza, dell’endocrinologia e dell’immunologia, con i loro diversi organi – il cervello (che è l’organo fondamentale studiato dai neuroscienziati), le ghiandole e il sistema immunitario (costituito dalla milza, il midollo spintale, i linfonodi e naturalmente dalle cellule in circolazione nel corpo) – sono in realtà unite da una rete di comunicazioni bi-direzionali e che i “portatori” di informazioni sono i neuropeptidi. Esistono substrati fisiologici ben studiati che dimostrano come la comunicazione avvenga in entrambe le direzioni per ognuna di queste aree e dei loro organi. Alcune ricerche risalgono a molti anni fa, altre sono recenti.

La parola che mi preme sottolineare, in questo sistema integrato, è rete, che viene dalla teoria delle informazioni. Infatti, tutto ciò di cui abbiamo parlato finora sono informazioni. In tale contesto, quindi, potrebbe essere più appropriato enfatizzare la prospettiva psicologica – letteralmente, lo studio della mente – piuttosto che quella della neuroscienza. Una mente è composta di informazioni e ha un substrato fisico, cioè il corpo e il cervello; inoltre, possiede un altro substrato immateriale che ha a che fare con il flusso di informazioni. Quindi, forse la mente è costituita dalle informazioni che scorrono tra tutte queste parti del corpo. Forse la mente è ciò che tiene insieme la rete.

L’Unità della Varietà

L’ultima cosa che voglio dire dei neuropeptidi è davvero sorprendente. Come abbiamo visto, i neuropeptidi sono molecole che mandano segnali. Essi inviano messaggi in tutto il corpo (incluso il cervello). Naturalmente, per avere un tale sistema di comunicazioni, occorrono componenti in grado di parlarsi e ascoltarsi. Nel nostro contesto, i componenti che “parlano” sono i neuropeptidi, mentre quelli che ascoltano sono i loro recettori. Come può essere questo? In che modo cinquanta, sessanta neuropeptidi nascono, viaggiano e parlano a cinquanta, sessanta varietà di recettori in ascolto, situati su vari tipi di cellule? Come mai regna l’ordine anziché il caos?

La scoperta di cui voglio parlare non è totalmente accettata, ma i nostri esperimenti dimostrano la sua validità. Non l’ho ancora pubblicata, ma penso che la sua conferma da parte di tutti sia solo una questione di tempo.
Esistono migliaia di scienziati che studiano i recettori degli oppiacei e i peptidi oppiacei. Essi osservano una grande eterogeneità nei recettori, che hanno chiamato con nomi greci. Ma tutti i dati dei nostri esperimenti lasciano pensare che in realtà esiste un solo tipo di molecola nei recettori oppiacei: una lunga catena di polipeptidi di cui si può scrivere la formula. Questa molecola è capace di cambiare conformazione all’interno della sua membrana, in modo da assumere varie forme.
Di passaggio, noto che tale interconversione può avvenire a velocità così elevata che è difficile dire se in un dato momento la molecola si trovi in uno stato o nell’altro. In altre parole, i recettori hanno allo stesso tempo la natura di onda e di particella, ed è importante osservare che le informazioni vengono memorizzate in base alla forma avuta in quel momento.

Come ho detto, l’armonia molecolare dei recettori è straordinaria. Considerate il tetrahymena, un protozoo che è uno degli organismi più semplici. Nonostante la sua semplicità, il tetrahymena può fare praticamente tutto ciò che noi sappiamo fare: mangiare, avere attività sessuali e naturalmente produrre gli stessi neuropeptidi di cui sto parlando. Il tetrahymena sintetizza l’insulina e le beta endorfine. Abbiamo preso le membrane del tetrahymena e studiato in particolare i recettori degli oppiacei presenti in esse; abbiamo studiato il recettore degli oppiacei anche nel cervello dei topi e nei monociti umani.

Crediamo di aver dimostrato che la sostanza molecolare di tutti i recettori oppiacei è la stessa. La molecola del recettore degli oppiacei nel cervello umano è identica a quella di quel semplicissimo animale, il tetrahymena. Spero che le implicazioni di ciò siano chiare. Il recettore degli oppiacei nel mio e nel vostro cervello è, alla radice, fatto della stessa sostanza molecolare del tetrahymena.
Questa scoperta ci fa riflettere sulla semplicità e l’armoniosità della vita. È paragonabile alle quattro coppie di base del DNA che codificano la sintesi di tutte le proteine, che sono il substrato fisico della vita. Ora sappiamo che in questo substrato fisico esistono solo circa sessanta molecole segnalatrici, i neuropeptidi, che regolano la manifestazione fisiologica delle emozioni o, se preferite, il modo in cui esse vengono espresse o, ancora meglio, il flusso di energia. Il protozoo tetrahymena dimostra che i recettori non diventano più complessi man mano che un organismo è più evoluto. Le stesse componenti molecolari alla base del flusso delle informazioni si conservano per tutta l’evoluzione. L’intero sistema è semplice, elegante e può benissimo essere completo.

La mente è nel cervello?

Abbiamo parlato della mente, e sorge la domanda: dove si trova? Nel nostro lavoro, la consapevolezza è emersa studiando il dolore e la sua modulazione operata dai recettori degli oppiacei e dalle endorfine. Molti laboratori stanno misurando il dolore e siamo tutti d’accordo nel dire che l’area chiamata grigio periacqueduttale, situata intorno al terzo ventricolo del cervello, è piena di recettori oppiacei che ne fanno una sorta di area di controllo del dolore. Abbiamo anche scoperto che il grigio periacqueduttale è pieno di recettori per praticamente tutti i neuropeptidi studiati.
Ebbene, tutti sanno che esistono yogi capaci di avvertire o meno il dolore, grazie al modo in cui strutturano la loro esperienza. Le partorienti fanno la stessa cosa. Apparentemente, queste persone sembrano capaci di attingere al loro grigio periacqueduttale. In qualche modo ne hanno accesso – tramite la loro consapevolezza, credo – e cancellano il dolore. Osservate quanto sta avvenendo. In queste situazioni, una persona ha un’esperienza che porta con sé dolore, ma una parte di quella persona fa consapevolmente qualcosa per cui non avverte il dolore. Da dove viene questa consapevolezza – questo io conscio – che in qualche modo ha accesso al grigio periacqueduttale, rendendo lui/lei capace di non avvertire una cosa?
Vorrei tornare all’idea di rete. Una rete è diversa da una struttura gerarchica in cui esiste un vertice. Teoricamente puoi entrare in una rete in un punto qualsiasi e dirigerti dove preferisci. Secondo me, questa idea è utile per spiegare il processo tramite il quale una consapevolezza riesce a raggiungere il grigio periacqueduttale, usandolo per controllare il dolore.

Gli yogi e le partorienti usano entrambi una tecnica simile per controllare il dolore: il respiro. Anche gli atleti vi fanno ricorso. Il respiro è estremamente potente. Io ipotizzo che dietro questi fenomeni ci sia un substrato fisico, i nuclei del tronco encefalico. Direi che ora dovremmo includere questi ultimi nel sistema limbico, perché sono punti nodali fittamente ricoperti di neuropeptidi e dei loro recettori.
L’idea, quindi, è questa: il respiro ha un substrato fisico che è anche un punto nodale; questo punto nodale fa parte di una rete di informazioni in cui ogni parte conduce a tutte le altre parti e così, dal punto nodale dei nuclei del tronco encefalico, la consapevolezza può, tra le altre cose, avere accesso al grigio periacqueduttale.

Penso che ora sia possibile concepire la mente e la consapevolezza come un prodotto del processo di elaborazione delle emozioni; in quanto tali, mente e consapevolezza sembrano indipendenti dal cervello e dal corpo.

eBook - La Mente e la Medicina Quantistica >> http://bit.ly/35oSg0G
L’incontro tra le Teorie Quantistiche, la Mente e la Spiritualità
Gioacchino Pagliaro

martedì 26 novembre 2019

La biochimica delle emozioni - 1



La biochimica delle emozioni - 1

prima parte

Nuova Biologia


Il pionieristico studio dei neuropeptidi e dei loro recettori, compiuto dalla dottoressa Pert, mostra come le emozioni si sviluppano nel corpo e come sia impossibile una netta distinzione tra cervello e corpo

di Candace Pert - 25/11/2019

Nel mio intervento esporrò una serie di nuove e affascinanti scoperte sulle sostanze chimiche del corpo chiamate neuropeptidi. Basandomi su queste scoperte, avanzerò l’idea che i neuropeptidi e i loro recettori formino una rete d’informazioni all’interno del corpo. Forse sembra un’ipotesi senza importanza, ma in realtà è gravida di conseguenze. Io credo che i neuropeptidi e i loro recettori rappresentino una chiave per comprendere in che modo la mente e il corpo siano interconnessi e come le emozioni si possano manifestare in tutto il corpo. In realtà, più si approfondiscono le nostre conoscenze sui neuropeptidi, più diventa difficile pensare al corpo e alla mente in termini tradizionali. È sempre più appropriato parlare di una sola entità integrata, un corpo-mente.
Parlerò soprattutto di scoperte di laboratorio, di dati rigorosamente scientifici. Ma è importante ricordare che lo studio scientifico della psicologia si basa tradizionalmente sull’apprendimento e la cognizione animali. Ciò vuol dire che se date un’occhiata all’indice dei testi classici di psicologia, non troverete molto spesso termini come consapevolezza, mente o emozioni. Questi argomenti non fanno parte della tradizionale psicologia sperimentale, la quale studia soprattutto il comportamento, perché esso può essere visto e misurato.

La specificità dei siti recettori

C’è un settore della psicologia in cui la mente – almeno la consapevolezza – viene studiata oggettivamente da almeno venti anni. È la psicofarmacologia, nell’ambito della quale i ricercatori hanno sviluppato metodi molto rigorosi per misurare gli effetti dei farmaci e degli stati alterati di consapevolezza.
Le ricerche in questo campo sono partite dall’assunto che nessun farmaco può avere effetto se non è fissato, cioè se in qualche modo non si attacca al cervello. Quindi, all’inizio i ricercatori hanno immaginato ipotetici tessuti costituenti ai quali un farmaco potrebbe legarsi – più o meno come una chiave entra in una serratura – e li hanno chiamati recettori. Così, l’idea di specifici recettori cerebrali per i farmaci divenne una teoria centrale della farmacologia. Si tratta di un’idea vecchissima.
In anni recenti un passo avanti fondamentale è stato la scoperta di tecniche per legare i farmaci a questi recettori e per studiare sia la loro distribuzione nel cervello sia la loro concreta struttura molecolare.

Cominciai a lavorare in questo campo nel laboratorio di Solomon Snyder alla Johns Hopkins Univesity, dove concentrammo l’attenzione sull’oppio, una droga che come è noto altera la consapevolezza ed è usata in Medicina per alleviare il dolore. Ho lavorato duramente, con molti insuccessi iniziali, al fine di creare un metodo per misurare la materia cerebrale con cui l’oppio interagisce producendo i suoi effetti. Per semplificare un discorso lungo e complicato, dirò che abbiamo usato delle sostanze radioattive grazie alle quali siamo riusciti a identificare l’elemento recettore dell’oppio nel cervello. Potete immaginare, quindi, una molecola di oppio che si attacca a un recettore, e da questo piccolo legame vedete svilupparsi dei grandi cambiamenti. In seguito si scoprì che l’intera classe di farmaci cui appartiene l’oppio – che sono chiamati oppiacei e che includono, oltre all’oppio, morfina, codeina ed eroina – si fissa allo stesso recettore. Poi scoprimmo che i recettori erano diffusi ovunque, non solo in tutto il cervello.
Dopo aver scoperto il recettore per gli oppiacei esterni, il nostro pensiero si spinse un passo oltre. Se il cervello e le altre parti del corpo hanno un recettore per qualcosa che viene assunto dall’esterno, sembra lecito supporre che anche all’interno del corpo esista qualcosa che si fissi al recettore. Altrimenti, perché esisterebbe il recettore?
Questa intuizione portò all’identificazione di una delle forme di oppiaceo presente all’interno del cervello, una sostanza chimica chiamata beta endorfina. La beta endorfina è sintetizzata nelle cellule nervose del cervello e consiste di peptidi, quindi è un neuropeptide. Inoltre, i peptidi si sviluppano direttamente dal DNA, che immagazzina le informazioni per creare il nostro cervello e il corpo.

Se immaginate una comune cellula nervosa, potete visualizzare il meccanismo generale. Al centro (come in ogni cellula) c’è il DNA, e una “stampa” diretta del DNA porta alla produzione di un neuropeptide, che a quel punto attraversa gli assoni della cellula nervosa per venire immagazzinato nelle piccole sfere poste all’estremità, in attesa di particolari eventi elettro-fisici che lo libereranno. Il DNA produce anche i recettori, che sono composti della stessa sostanza dei peptidi, ma sono molto più grandi. Ciò che va aggiunto a questo quadro è il fatto che sono stati identificati da cinquanta a sessanta neuropeptidi, ognuno dei quali specifico come il neuropeptide beta endorfina. Siamo di fronte dunque a un sistema enormemente complesso.
Fino a tempi recenti si pensava che le informazioni del sistema nervoso fossero distribuite nello spazio tra due cellule nervose, chiamato sinapsi. Ciò significava che la vicinanza delle cellule nervose determinava ciò che poteva essere comunicato.
Ma ora sappiamo che la maggior parte delle informazioni provenienti dal cervello non dipende direttamente dalla sovrapposizione fisica delle cellule nervose, ma dalla specificità dei recettori. Quello che veniva ritenuto un sistema lineare altamente rigido sembra invece dotato di schemi di distribuzione molto più complessi.

Dunque, quando una cellula secerne i peptidi oppiacei, questi possono agire a “chilometri” di distanza sulle altre cellule nervose. Lo stesso vale per tutti i neuropeptidi. In qualsiasi momento, molti neuropeptidi possono scorrere all’interno del corpo, e ciò che li rende capaci di fissarsi al giusto recettore è, lo ripetiamo, la specificità di quest’ultimo. Quindi, i recettori sono il meccanismo che regola lo scambio di informazioni nel corpo.

La biochimica delle emozioni

Dove ci porta tutto ciò? A un concetto affascinante: i recettori dei neuropeptidi sono in realtà la chiave per capire la biochimica delle emozioni. Negli ultimi anni i ricercatori del mio laboratorio hanno formalizzato questa idea in molti documenti teorici, e ora farò una sintesi delle prove a sostegno di questa tesi.

Devo dire che alcuni scienziati potrebbero essere inorriditi da questa idea. In altre parole, essa non fa parte delle conoscenze acquisite. Di fatto, venendo da una tradizione in cui i libri di testo non contengono nemmeno la parola emozioni nell’indice, non è senza trepidazione che abbiamo osato cominciare a parlare del substrato biochimico delle emozioni.
Comincerò facendo notare un fatto su cui i neuroscienziati si sono dichiarati d’accordo per molti anni: le emozioni sono mediate dal sistema limbico del cervello. Il sistema limbico include l’ipotalamo (il quale controlla i meccanismi omeostatici del corpo e talvolta viene chiamato il “cervello” del cervello), la ghiandola pituitaria (che regola gli ormoni del corpo) e l’amigdala. Noi parleremo soprattutto dell’ipotalamo e dell’amigdala.

Gli esperimenti che dimostrano il legame tra le emozioni e il sistema limbico vennero fatti per la prima volta da Wilder Penfield e altri neurologi che lavoravano su individui consci e svegli. I neurologi scoprirono che usando elettrodi per stimolare la corteccia sopra l’amigdala si poteva suscitare un’ampia gamma di emozioni: rabbia, dolore, piacere associati ad antichi ricordi, con tutte le corrispondenti manifestazioni somatiche. Il sistema limbico venne identificato per la prima volta, quindi, grazie a esperimenti psicologici.

Ebbene, quando abbiamo cominciato a individuare l’ubicazione dei recettori dell’oppio nel cervello abbiamo scoperto che il sistema limbico ne era ricco (in seguito avremmo scoperto che ciò valeva anche per altri recettori). L’amigdala e l’ipotalamo, entrambi tradizionalmente considerati i componenti principali del sistema limbico, sono in realtà pieni di recettori oppiacei: essi ne contengono quaranta volte di più delle altre aree del cervello.

Questi “punti caldi” corrispondono a nuclei o gruppi cellulari molto specifici che psicologi e fisiologi hanno identificato come mediatori di processi quali il comportamento sessuale, l’appetito e l’equilibrio dell’acqua nel corpo. Il punto importante è che la nostra mappa dei recettori ha confermato ed espanso in modo significativo gli esperimenti psicologici che definivano il sistema limbico.
Ora vorrei parlare di altri neuropeptidi. Ho già detto che oggi vengono considerate neuropeptidi da cinquanta a sessanta sostanze. Da dove vengono? Molte di loro sono analoghi naturali delle droghe psicoattive. Ma un’altra fonte importante – davvero inaspettata – sono gli ormoni. Storicamente, si è sempre pensato che gli ormoni fossero sintetizzati dalle ghiandole, non dalle cellule nervose. Un ormone, presumibilmente, era immagazzinato in un punto del corpo, poi viaggiava verso i suoi recettori in altre parti del corpo. L’ormone fondamentale è l’insulina, che è secreta dal pancreas. Ma ora si è scoperto che l’insulina non è soltanto un ormone. Di fatto, l’insulina è un neuropeptide, sintetizzato e immagazzinato nel cervello, e nel cervello vi sono recettori dell’insulina. Facendo la “mappa” delle posizioni dell’insulina, troviamo di nuovo punti caldi nell’amigdala e nell’ipotalamo. In breve, è diventato sempre più chiaro che il sistema limbico, sede delle emozioni nel cervello, è anche il punto focale dei recettori per i neuropeptidi.
Un altro punto critico. Studiando la distribuzione di questi recettori, abbiamo scoperto che il sistema limbico non è solo nel proencefalo, la classica ubicazione dell’amigdala e dell’ipotalamo. Sembra che nel corpo ci siano altri punti che contengono recettori per molti diversi neuropeptidi, punti nei quali avviene un’intensa attività chimica e che abbiamo chiamato punti nodali. Dal punto di vista anatomico, essi sono localizzati in luoghi in cui avviene una grande modulazione delle emozioni.

Un punto nodale è il corno dorsale della spina dorsale, che è il punto da cui entrano le informazioni sensoriali. Questa è la prima sinapsi nel cervello dove vengono elaborate le informazioni sensoriali. Abbiamo scoperto che, praticamente, per tutti i sensi di cui conosciamo l’area di ingresso, quest’ultima è sempre un punto nodale di recettori di neuropeptidi. Credo che queste scoperte siano importantissime per capire e apprezzare ciò che le emozioni sono e possono fare. Considerate la sostanza chimica angiotensina, un altro classico ormone che è anche un peptide e che ora è considerato un neuropeptide. Quando facciamo la mappa dei recettori dell’angiotensina nel cervello, ci imbattiamo nuovamente in punti caldi nell’amigdala. Da molto tempo si sa che l’angiotensina controlla la sete: infatti, impiantando un tubicino nell’area del cervello di un topo ricca di recettori di angiotensina e versandovi un po’ di quest’ultima, entro dieci secondi il topo comincerà a bere, anche se è totalmente sazio di acqua. Quindi, dal punto di vista chimico, l’angiotensina crea uno stato alterato di consapevolezza, uno stato che fa dire agli animali (e agli uomini): “Voglio acqua”. In altre parole, i neuropeptidi ci portano in uno stato di consapevolezza e in stati alterati di quest’ultimo.

Ugualmente importante è il fatto che i recettori dei neuropeptidi non sono soltanto nel cervello, ma anche nel corpo. Abbiamo dimostrato dal punto di vista biochimico che nei reni vi sono recettori dell’angiotensina uguali a quelli del cervello, e che i recettori situati nei reni conservano l’acqua in modi non ancora ben compresi. Il punto è che il rilascio del neuropeptide angiotensina porta sia a bere sia a conservare acqua nel corpo. Questo è un esempio di come un neuropeptide – che forse corrisponde a uno stato d’animo – può integrare ciò che avviene nel corpo con ciò che avviene nel cervello (un ulteriore, importante punto che qui mi limito ad accennare è che l’integrazione generale del comportamento sembra concepita per facilitare la sopravvivenza).

Il mio ragionamento fondamentale è che i neuropeptidi forniscono la base fisiologica delle emozioni. Come io e i miei colleghi abbiamo scritto in un articolo sul Journal of Immunology: “La singolare distribuzione dei recettori dei neuropeptidi nelle aree del cervello che regolano l’umore, così come il loro ruolo nel mediare la comunicazione in tutto l’organismo, fa dei neuropeptidi i primi candidati alla mediazione biochimica delle emozioni. Potrebbe anche essere che i neuropeptidi influenzano il processo delle informazioni solo quando occupano i recettori nei punti nodali del cervello e del corpo. Se è così, ogni neuropeptide può evocare un solo «tono», equivalente a uno stato di animo”.

All’inizio del mio lavoro, pensavo realisticamente che le emozioni erano nella testa o nel cervello. Ora direi che esse sono anche nel corpo. Si esprimono nel corpo e fanno parte del corpo. Non riesco più a fare una netta distinzione tra il cervello e il corpo.

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L’incontro tra le Teorie Quantistiche, la Mente e la Spiritualità
Gioacchino Pagliaro