martedì 16 aprile 2019

La “luce” dei simboli: psicoterapia, fotoni e DNA



La “luce” dei simboli: psicoterapia, fotoni e DNA

Neuroscienze e Cervello


Secondo un’ipotesi affascinante l’approccio psicoterapeutico analogico e simbolico potrebbe influenzare l’emissione di fotoni da parte dei microtubuli del cervello e l’espressione del DNA

Redazione Scienza e Conoscenza - 15/04/2019

Tratto dall'articolo La “luce” dei simboli: psicoterapia, fotoni e DNA di Diego Frigoli, apparso su Scienza e Conoscenza 68.

In tutte le civiltà si è sempre celebrata la luce come fenomeno fisico e al contempo come immagine simbolica, dotata di uno spettro di iridescenze metaforiche capaci di parlare a tutte le sfumature dell’anima. Ricordiamo le riflessioni profonde prodotte dalla meditazione Taoista, Induista, Kabbalista, Cristiana, Gnostica, Alchemica, giusto per citare le più note, ma l’esperienza dell’anelito alla luce è così generale nell’essere umano, da qualificarla come una vera e propria istanza archetipica, una tensione cioè, a esprimere l’eterno gioco degli opposti, che nel caso della luce riguarda il suo confronto con l’ombra (Frigoli D., 2017).

Anche nel campo della fisica la costituzione della luce presenta una sua ambiguità di fondo, che sembra sottrarla a una definizione precisa: essa è composta da fotoni, che a seconda dell’osservatore, si comportano come particelle o come onda. Sul piano psicologico questa ambiguità sfuggente, che dipende dal ruolo dell’osservatore, è la stessa che esiste fra la coscienza e l’inconscio (Frigoli D., 2013); questo fatto portò due immensi protagonisti della scienza come Wolgang Pauli e Carl Gustav Jung a confrontarsi sulla realtà della fisica quantistica e la dimensione dell’inconscio e delle sue leggi (Jung C.G., Pauli W., 2015).

Oggi noi sappiamo che la luce è simbolo della coscienza e che la natura della coscienza è “affondata” nella natura del corpo, come ci ricordano Humberto Maturana e Francisco Varela (Maturana H., Varela F., 1987) pertanto l’azione del portare alla luce la coscienza, sottraendola all’ombra dell’inconscio non significa solo un’esplorazione psicologica dei traumi e delle delusioni che hanno costellato la nostra esistenza, ma se si vuole confrontarsi con l’archetipico presente nello studio della luce, occorre, in termini alchemici, sprofondare nel nostro corpo, individuare le forze istintuali che lo sorreggono e trasformare le stesse in metafore adeguate a esprimere la loro “sostanza”, resa finalmente accessibile alla coscienza (Frigoli D., 2017).

A questo e non ad altro si riferisce il processo di individuazione psicologica e ne rappresenta un pallido esempio. Tutti colgono della luce il suo lato psicologico di illuminare l’ignoto, e hanno sempre descritto la dialettica luce-tenebre come un paradigma morale e spirituale, destinato a permettere un dialogo con il divino per sottrarsi a quel mondo di tenebre e di «ombre mortali, paese della caligine e dell’opacità, della notte e del caos, in cui la stessa luce è tenebra fonda» (Giobbe, 10, 21-22, 2010).

In realtà il rapporto luce-tenebre è molto più complesso, perché la relazione fra l’oscurità e la luce non è semplicemente etica – nel senso che l’oscurità corrisponde alla privatio boni degli gnostici, mera essenza del bene cioè, e la luce alla presenza del Logos –, ma semmai è dotata di uno statuto ontologico più vasto, ben espresso dalla dualità simbolica delle divinità Shiva e Parvati (Coomaraswami A., 2011) dell’induismo, unite in una eterna danza cosmica, e dal simbolo più conosciuto, legato al taoismo, dove i principi dello yin e dello yang sono riuniti nel loro eterno movimento in una totalità assoluta, quella dell’Uno che li abbraccia (Granet M., 1971).

Le sfumature del Tao Quale significato attribuire a queste immagini per individuare il loro valore archetipico? È evidente che questa danza di opposti – di come cioè nella Luce sia presente l’Oscurità (l’ombra della luce) e l’Oscurità la Luce (la luce dell’ombra) – sta a significare non soltanto la relatività della dialettica Luce-Ombra, secondo la quale tali opposti non sono mai da considerare assoluti, ma anche la possibilità di poter trasformare tale opposizione apparente in una realtà più sfumata, più duttile, perché aperta alla trasformazione. In termini etici si può parlare di come dal bene possa scaturire il male e di come dal male possa scaturire il bene.

Questa riflessione è la più nota nel mondo occidentale, che però non ha compreso in profondità il valore archetipico di questo simbolo, a differenza dell’Oriente dove il simbolo stesso assume caratteristiche di importanza primaria nel descrivere una “pratica” trasformativa dell’essere umano verso la dimensione della sua totalità (Cooper J.C., 1985).

Non a caso la storia di tale simbolo, che si perde nella notte dei tempi, nasce dalle esperienze dei veggenti taoisti, che come i rishi delle Upanishad, sapevano conoscere la natura del Cosmo e dell’Uomo per via intuitiva, attraverso percezioni subliminali in cui la mente, diventata sempre meno opaca grazie al costante immergersi consapevole nell’opacità, procurava un tipo di conoscenza in cui la commistione dello yin e dello yang diventava l’espressione delle infinite forme della realtà, presenti nel corpo dell’uomo sotto forma di forze istintuali. La coscienza consapevole delle forze corporee degli istinti li rendeva progressivamente liberi dal loro automatismo, permettendo alla coscienza rinnovata la scoperta della propria trasformazione.

Per questo il simbolo del tàijítú – come peraltro tutti i simboli in cui si esprime la dialettica degli opposti – è stato assunto dall’alchimia cinese a indicare l’arduo percorso e la pratica operativa di individuazione della scintilla del Sé definita, a seconda delle culture, Embrione immortale e Lapis Philosophorum (Jung C.G., Wilhelm R., 1981).

Scienza e Conoscenza n. 68 - Aprile/Giugno 2019 — Rivista >> http://bit.ly/2YKRKHY 
Nuove scienze, Medicina Integrata