InFormazione Olistica e Produzioni MultiMediali Evolutive, Sonorità ed Elementi Induttivi Subliminali Benefici e Curativi, Olofonia e Ologrammi, Musica Frattale, Effetto Sub Mozart e Silent Subliminal, AudioTerapia e PsicoAcustica, PNL e MusicoTerapia, Psicologia e PsicoSomatica, Medicina e Musica Olistica, NeuroScienze e NeuroAcustica, Misticismo e Mantra, Induzioni Infrasoniche e BrainWave Entrainment, ASMR e HRM, Ricerca Interiore e Armonia, Salute e Benessere...
giovedì 27 giugno 2019
mercoledì 26 giugno 2019
Bere poco o bere molto?
Bere poco o bere molto?
Alimentazione e Salute
Il consiglio di bere tanto può essere valido sempre e per
tutti, oppure è meglio seguire lo stimolo della sete? Cosa ci dice la Medicina
Tradizionale Cinese a questo proposito?
Redazione Scienza e Conoscenza - 26/06/2019
Tratto dal libro I Rimedi Naturali per Depurare e Curare
il Fegato di Roberto Marrocchesi
Al giorno d’oggi si sente sempre dire che bisogna bere
molto anche quando non si sente lo stimolo della sete e che la disidratazione è
frequentissima e magari non ce ne accorgiamo e cose simili. Soprattutto
l’attuale classe medica si è fatta alfiere di questa tesi e spesso ho
incontrato persone che bevono perché hanno sentito dire che “fa bene” e
agiscono quindi meccanicamente senza esercitare un loro giudizio e senza
ascoltarsi veramente.
Ci sono casi opposti tra loro: la persona che ha molta
sete e beve e la persona che non ha quasi mai sete e beve pochissimo.
Di questi due, direi che il primo ha sicuri problemi di
salute, fa bene a bere, ma ciò non migliorerà molto la sua salute globale
perché - secondo la Medicina Tradizionale Cinese (ndr) - si tratta di un vuoto
dello yin, con presenza di calore, secchezza, infiammazioni varie a carico di
rene, stomaco, fegato o anche cuore. In questi casi si tratta di soggetti che
mangiano troppo sale, carne e salumi, troppi cibi cotti, consumano in eccesso
fritti o alimenti grigliati, alimenti yang, pane e prodotti da forno, e che si
muovono, parlano, passano molto tempo in piedi, portano tacchi alti che incurvano
all’interno la fascia lombare della schiena (lordosi, che danneggia rene e
vertebre), lavorano molto e dormono poco. Sono pletorici, in stato di pieno. Ad
eccezione dei bambini che sono già yang di loro natura, questa condizione
potrebbe sfociare in patologie anch’esse yang del cuore, del fegato o dello
stomaco, o essere già un segno di pre-diabete o ipertensione, la sindrome
metabolica insomma.
Per chi invece non beve perché non ha sete, la situazione
pare un poco più equilibrata: ben difficilmente si danneggia l’organismo non
bevendo se non si ha sete, perché il corpo sente e manifesta l’emergenza quando
si trova in condizione di reale disidratazione. Allora, sarà vero che, come
dicono in molti, bisogna bere anche sforzandosi, specie in età matura o anziana?
Ritengo che ciò possa essere corretto solo in pochi casi.
Nella scuola macrobiotica di origine giapponese veniva
detto in passato, intorno alla prima metà del Ventesimo secolo, di “bere il
meno possibile” per evitare il rigonfiamento delle cellule e l’esaurimento del
rene nella sua funzione di riassorbimento liquidi; l’indicazione veniva
spiegata anche in funzione di combattere obesità, edemi o gonfiori, tutti
collocati nel cosiddetto Inferno, il regno dello yin, secondo il suo
proponente, l’originalissimo filosofo Georges Ohsawa.
Questa valutazione portò spesso a rilevare tra i primi
seguaci la presenza di soggetti di corporatura magra, asciutta, austeri come
sagrestani, dalla pelle rinsecchita e grinzosa, anche se con occhi accesi,
eloquio brillante e pieni di energia. L’approccio “poco yin, tanto yang”, che
la macrobiotica ha sostenuto fino agli anni ’80 circa, è stato però moderato
più saggiamente in “beviamo quanto ci fa sentire bene, a ciascuno la sua
quantità”, che è assai più accettabile. La sensazione di sete va ascoltata e
seguita.
C’è un elemento sul quale invito a riflettere; oggi i
nutrizionisti e i medici consigliano di bere molto e tale suggerimento potrebbe
avere un senso in quanto è elevato il consumo di cibi ritenuti “normali” ma che
sono in realtà contaminati da sostanze chimiche tossiche, cioè i cibi moderni
industriali, salati e trattati, che sporcano il sangue, che si affiancano
all’eccesso di alimenti animali, a loro volta pure denaturati e sempre più
tossici, pieni di grassi non salubri, di ormoni e di quell’impronta di violenza
che resta impressa in essi dall’istante della macellazione, foriera di una
scarica adrenergica non certo salutare.
Scopri il libro dai cui è tratto questo articolo!
Depurare e Curare il Fegato con i Rimedi Naturali — Libro
>> http://bit.ly/2Ll42ST
Roberto Marrocchesi
giovedì 20 giugno 2019
Cervello, processi quantistici e coscienza
Cervello, processi quantistici e coscienza non locale
Neuroscienze e Cervello
La coscienza è un epifenomeno del cervello o una trama
intrinseca all'universo, governata da principi quantistici? Ecco cosa ne pensa
il professor Stuart Hameroff
Carmen Di Muro - 19/06/2019
Etimologicamente il termine coscienza deriva dal latino
consciens, participio presente di conscíre ovvero essere consapevole. La determinazione storica di
questa facoltà è genericamente correlata con quella di una sfera dell’interiorità come campo specifico nel
quale è possibile effettuare indagini che concernono l’ultima realtà dell’uomo
e, assai spesso, ciò che in quest’ultima realtà si rivela: quell’intimo
conoscimento che ciascuno ha dei suoi sentimenti ed azioni per il quale egli
può fare esperienza di sé.
L'interpretazione standard della coscienza
Oggigiorno, il lavoro di ricerca sullo spettro della
coscienza viene attuato partendo da ciò che è dimostrabile empiricamente e
procede dal presupposto che la mente cosciente sia il risultato dell’attività
biologica dei neuroni celebrali. La ragione di questo sta nel fatto che molti
scienziati considerano la coscienza come un epifenomeno, ovvero come il
prodotto manifesto macroscopico di numerosi processi elettrochimici che
avvengono nel nostro cervello. Stando, quindi, al modello standard la coscienza
emergerebbe dal complesso calcolo neuronale (la cui attitudine è vista in
termini di impulsi neuronali e trasmissioni sinaptiche, equiparati a
"bit" binari di calcolo digitale) che nasce durante l'evoluzione biologica
come adattamento dei sistemi viventi, estrinseco alla composizione dell'universo.
Eppure la coscienza non è semplicemente il risultato di
reazioni molecolari e di processi chimici, ma è il nucleo essenziale della natura, è sua
essenza. La coscienza esiste al di fuori degli usuali vincoli dello
spazio/tempo e sfugge alla tradizionale comprensione delle leggi della fisica
classica. Essa è energia non locale e il suo campo d’azione non va concepito
entro i confini del corpo fisico, ma al contrario, in modo esteso all’infinito.
La coscienza come trama intrinseca dell'universo
Ma in che modo il cervello produce la ricchezza
dell'esperienza consapevole e di qualsiasi atto soggettivo? Le tradizioni
spirituali e contemplative, e alcuni eminenti ricercatori moderni, considerano
la coscienza intrinseca, "tessuta nella trama dell'universo".
Tale principio è ciò che anima le avveniristiche
concettualizzazioni di “neurodinamica quantistica” di uno scienziato di fama
mondiale, lo studioso americano Stuart Hameroff, il quale ha sviluppato negli
ultimi 20 anni in sinergia con fisico britannico Sir Roger Penrose, una teoria
rivoluzionaria chiamata “orchestrated objective reduction” (Orch OR).
Essa suggerisce che la coscienza nasca, in realtà, dalle
vibrazioni quantistiche che avvengono nei polimeri proteici chiamati
microtubuli all'interno dei neuroni del cervello, vibrazioni che controllano,
"collassando" e risuonando su scala, i processi cerebrali, generando
atti di coscienza, attraverso la connessione alle increspature di "ordine
più profondo" nella geometria dello spazio-tempo.
La coscienza è più simile alla musica che al calcolo. E
il cervello sembra più un'orchestra, un sistema di risonanza vibrazionale
multi-scalare, che un computer. I modelli di informazione del cervello si
ripetono su scale spazio-temporali in gerarchie simili ai frattali di reti
neuronali, con risonanze e battiti di interferenza.
ll prof. Stuart Hameroff, oltre ad aver condotto per anni
ricerche con il Premio Nobel per la Fisica Prof R. Penrose, è professore e
direttore di anestesia e psicologia, nel Centro di studi sulla Coscienza
dell'Università di Banner in Arizona, impegnato nello studio su come gli
anestetici agiscono nei microtubuli per cancellare la coscienza, nonché di come
l'ecografia transcranica potrebbe essere utilizzata in modo non invasivo per
risuonare con i microtubuli cerebrali e trattare disturbi mentali, cognitivi e
neurologici.
La Mente e la Medicina Quantistica
È possibile che la preghiera e l’intenzione di guarigione
di un gruppo di persone che medita su dei pazienti possa avere degli effetti
benefici sullo stato di salute di questi ultimi?
La mente può realmente influenzare la materia e quindi
anche il corpo e la salute?
In che modo la meditazione può incidere sui parametri
biologici e favorire i processi di guarigione? Quanto è importante per la
riuscita di una terapia che il paziente si senta accolto empaticamente dal
personale sanitario e partecipi con consapevolezza al percorso di cura?
Gioacchino Pagliaro, psicologo e psicoterapeuta, è tra i
pionieri della medicina mente-corpo e della medicina quantistica in Italia e da
anni si pone queste domande con spirito critico e privo di pregiudizi. Pagliaro
ha il merito di aver portato la meditazione negli ospedali, per il personale e
per i pazienti oncologici, e lavora da ormai trent’anni per l’umanizzazione
delle cure, la promozione della salute e una medicina più attenta alla persona
e non solo alla patologia. Autore per Scienza e Conoscenza da oltre quattro
anni, fa parte del Comitato Scientifico della rivista, che arricchisce di
numero in numero con la sua esperienza e i suoi preziosi consigli. Con piacere
vi presentiamo questo libro che raccoglie i suoi interventi più significatici
apparsi sino ad ora sulle pagine della rivista.
Indice
CAPITOLO 1 - La fisica quantistica nella vita quotidiana
CAPITOLO 2 - Medicina vibrazionale e campo energetico
CAPITOLO 3 - Guarigione a distanza e Fisica Quantistica
CAPITOLO 4 - Mente non-locale e guarigione a distanza
CAPITOLO 5 - La Cura Quantica della Consapevolezza
CAPITOLO 6 - La meditazione aiuta a guarire
CAPITOLO 7 - Cancro e Medicina Quantistica
eBook - La Mente e la Medicina Quantistica >> http://bit.ly/2XnZRMD
L’incontro tra le Teorie Quantistiche, la Mente e la
Spiritualità
Gioacchino Pagliaro
martedì 18 giugno 2019
Cos'e' una teoria scientifica
Che cos'e' una teoria scientifica?
Scienza e Fisica Quantistica
Dal riduzionismo, all’epistemologia biiettiva per
superare l’empasse del Modello Standard
Davide Fiscaletti - 17/06/2019
Come evidenzia il premio Nobel 1998 Robert Laughlin nel
suo brillante libro Un universo diverso, la natura è regolata sia da principi
essenziali, primari (che riguardano i costituenti elementari delle cose) sia da
principi organizzativi (che riguardano strutture stabili e complesse composte
da tali elementi). Nella storia della scienza esiste da sempre un conflitto tra
due concezioni, vale a dire se siano le leggi microscopiche a determinare
l’organizzazione, l’ordine che osserviamo nelle cose che ci circondano, oppure
se invece vale il viceversa.
Da un punto di vista generale, possiamo dire che per gran
parte dell’evoluzione del pensiero scientifico moderno ha prevalso un approccio
riduzionistico, secondo cui i vari fenomeni diventerebbero via via più nitidi
allorché vengono frazionati in parti e componenti sempre più piccole.
È fuori di dubbio il fatto che il riduzionismo abbia portato
notevoli successi, in particolare nella fisica (pensiamo, per esempio, agli
sviluppi della fisica atomica, della fisica nucleare, della fisica delle
particelle elementari).
Tuttavia, è lecito chiedersi: esiste veramente un livello
fondamentale dal quale si può spiegare tutto, usando il formalismo matematico a
partire dalle interazioni fondamentali tra i costituenti elementari?
Il reame dei sistemi complessi
Va sottolineato che esistono tutta una serie di sistemi
fisici – come i superfluidi e i superconduttori – i quali evidenziano
chiaramente come le simmetrie che caratterizzano i costituenti elementari si
possano rompere e la materia possa acquisire collettivamente e spontaneamente
delle nuove proprietà che non sono presenti nelle sue regole fondamentali. In
questi fenomeni il risultato è maggiore della somma degli addendi: nei
superconduttori, per esempio, gli elettroni del materiale tendono a muoversi
tutti assieme, sotto forma di coppie elettrone-elettrone, chiamate coppie di
Cooper, come se fossero un’unica macroentità.
I sistemi in cui si verificano questi fatti costituiscono
quella che viene anche chiamata la “terra di mezzo”, o reame, dei sistemi
complessi la quale comprende molteplici scale di grandezza. In questo dominio
rientrano in pratica tutti i fenomeni che stanno tra la fisica delle particelle
e la cosmologia, e quindi per esempio anche gli organismi viventi, i sistemi
cognitivi, i sistemi sociali.
Si tratta di un territorio caratterizzato dall’intreccio
dei livelli e dall’emergenza di nuove forme organizzative, dove a partire dalle
proprietà dei costituenti può essere impossibile dedurre i comportamenti
globali del sistema. Nel suo recente illuminante libro Complessità.
Un’introduzione semplice, Ignazio Licata sostiene che la terra di mezzo è il
posto dove succedono le cose più interessanti per noi, in riferimento alla
capacità di produrre conoscenza.
In questi fenomeni si osserva una pluralità di livelli e
di comportamenti e questo necessita di ricorrere a più modelli, ciascuno dei quali
ci permetterà di cogliere solo un aspetto parziale delle cose, di mettere a
fuoco quanto emerge dagli obiettivi che ci si pone, mentre cambiando obiettivi
cambiano i modelli.
I limiti riduzionisti del Modello Standard della fisica
delle particelle
La nuova fisica sviluppatasi nel XX secolo, e
segnatamente l’esplorazione del mondo atomico e subatomico, ha demolito le basi
della visione del mondo, mostrando come in ambito quantistico le particelle
subatomiche non hanno significato come entità isolate, ma possono essere
comprese solo come interconnessioni tra vari processi di osservazione e
misurazione.
Nonostante ciò, il Modello Standard della fisica delle
particelle – la teoria fondamentale che, usando il linguaggio della teoria
quantistica dei campi, descrive le proprietà delle particelle elementari della
fisica e specifica il modo in cui interagiscono – sembra essere affetta da
svariati limiti legati alla sua modalità “riduzionista” di approcciarsi alla
realtà.
Il Modello Standard non sembra aver imparato la lezione
riguardante l’esistenza e le proprietà del vuoto quantistico, quell’entità
dinamica capace di esibire delle fluttuazioni di energia (descritte in termini
di particelle virtuali) non direttamente osservabili, ma significative nello
studio dei comportamenti dei sistemi fisici in quanto in grado di produrre su
di essi effetti reali e osservabili...
Continua la lettura su
Scienza e Conoscenza n. 68 - Aprile/Giugno 2019 — Rivista
>> http://bit.ly/2YKRKHY
Nuove scienze, Medicina Integrata
lunedì 17 giugno 2019
Che cosa sono i fotoni?
Che cosa sono i fotoni?
Scienza e Fisica Quantistica
Cosa sono i fotoni? Quali le caratteristiche particolari
di queste interessanti particelle? Come si studiano?
Antonella Ravizza - 15/06/2019
La luce da sempre ha attratto la curiosità dell’uomo: di
che cosa è fatta? Perché è così brillante? Il segreto sta nel fotone, una
piccolissima particella di luce! Cerchiamo di scoprire insieme le principali
caratteristiche di questa interessante particella elementare.
Quando aveva 16 anni, Albert Einstein sognò davanti ad
uno specchio di cavalcare un raggio di luce. Il giovane sognatore intuì che non
sarebbe riuscito a vedersi riflesso nello specchio, perché, stando sopra alla
luce, si sarebbe mosso esattamente alla sua velocità; per potersi specchiare
avrebbe dovuto superare la velocità della luce stessa. Qualche tempo dopo lo
stesso Einstein, studente al Politecnico di Zurigo, si rese conto che la velocità
della luce è una costante.
Cosa sono i fotoni?
Il termine fotone deriva dal greco e fu introdotto per la
prima volta da Gilbert Lewis nel 1926. Il fotone si indica con la lettera greca
γ ed è associato ad ogni radiazione elettromagnetica. Pur essendo un fenomeno
ondulatorio, la radiazione elettromagnetica ha anche una natura quantizzata che
le consente di essere descritta come un flusso di fotoni.
Il fotone è una particella che ha vita infinita: può
essere creato e distrutto dall’interazione con altre particelle, ma non può
decadere spontaneamente. Pur non avendo massa, è influenzato dalla gravità e
possiede energia; nel vuoto si muove alla velocità della luce (c=300000 km/s
circa), mentre nella materia si comporta in modo diverso e la sua velocità può
scendere al di sotto di c. In effetti, quando interagisce con altre particelle
acquisisce massa e non si muove più alla velocità della luce. Bohr ipotizzò che
un atomo può emettere un’ onda elettromagnetica (o radiazione) solo quando un
elettrone si trasferisce da un’orbita con energia maggiore (Ei) a un’ orbita
con energia minore (Ef).
L’energia dell’onda elettromagnetica emessa è: E= Ei-Ef .
Dal momento che sia Ei sia Ef possono assumere solo valori ben definiti,
l’energia della radiazione elettromagnetica emessa dall’atomo non può avere
qualsiasi valore, ma solo quantità discrete, dette quanti di energia: i fotoni.
Quindi la materia è in grado di emettere o assorbire energia raggiante solo
sotto forma di pacchetti energetici. Einstein calcolò l’energia associata ad
ogni fotone e vide che era proporzionale alla frequenza dell’onda
elettromagnetica.
Onda o particella? La doppia natura del fotone
Prima delle scoperte della prima metà del XX secolo, onde
e particelle sembravano concetti opposti: un'onda riempie una regione di
spazio, mentre un elettrone o uno ione hanno una locazione ben definita. Su
scala atomica, in effetti, la distinzione diventa confusa: le onde hanno alcune
proprietà delle particelle e viceversa.
Effettivamente il fotone mostra una duplice natura, sia
corpuscolare, sia ondulatoria: a seconda della strumentazione usata per
rilevarlo, si comporta come una particella, o si comporta come un’onda.
L’esperimento dell’effetto fotoelettrico (quel fenomeno per cui si ha emissione
di elettroni da parte di un corpo colpito da onde elettromagnetiche) suggerisce
la natura corpuscolare della luce, mentre i fenomeni di diffrazione e di interferenza
suggeriscono una natura ondulatoria.
Per valutare come la luce passi attraverso un telescopio,
si calcola il suo moto come se la luce fosse un’onda. Però, quando la stessa
onda cede la sua energia a un singolo atomo, risulta che essa si comporta come
una particella. Indipendentemente dal fatto che un raggio di luce sia più
brillante o debole, la sua energia viene trasmessa in quantità delle dimensioni
di un atomo (il fotone) la cui energia dipende soltanto dalla lunghezza d'onda.
Le osservazioni hanno mostrato che tale “dualità” onda-particella esiste anche
in direzione opposta.
Un elettrone dovrebbe avere, in ogni istante, posizione e
velocità ben definite; ma la fisica quantistica ci dice che una precisione in
osservazioni di questo tipo non può essere ottenuta, e ci suggerisce che il
moto può essere descritto come un'onda. Il dualismo onda-particella era
considerato paradosso fino all’introduzione completa della meccanica
quantistica, che descrisse in maniera unificata i due aspetti. La radiazione si
comporta come un’onda quando si propaga nello spazio, mentre si comporta come
particella quando interagisce con la materia.
Si introducono quindi nuove quantità e notazioni: un'onda
elettromagnetica di lunghezza d'onda λ percorre una distanza di c metri ogni
secondo. La sua frequenza ν, cioè il numero di oscillazioni in su e giù ogni
secondo, si può ottenere dividendo c per la lunghezza d'onda: ν = c/ λ . Una
legge fondamentale della fisica quantistica dice che l'energia E in joule di un
fotone di frequenza ν è: E = hν, dove h = 6,624 10-34joule-sec è la
"costante di Planck".
Luce solida e computer quantistici
Oggi si sa molto di più: i ricercatori dell’Università di
Princeton sono riusciti a rallentare i fotoni e a creare una stranissima e
nuova forma di luce: la luce solida! Hanno cioè creato un cristallo fatto non
di atomi ma di fotoni, cioè di particelle che costituiscono la luce (fotoni
congelati).
Hanno ottenuto un agglomerato di 100 miliardi di atomi di
materiale superconduttore come fosse un atomo artificiale; nelle sue vicinanze
hanno fatto passare un filo superconduttore contenente fotoni. La luce ha
potuto, così, “solidificarsi”, cambiando natura con un processo che è stato
paragonato a una transizione di fase, cioè simile a quando un gas si condensa
per diventare liquido o solido.
Lo scopo finale dei ricercatori è la realizzazione di un
computer quantistico capace di effettuare calcoli molto più complessi di quelli
che risolvono i computer tradizionali. Chissà, magari tra qualche anno, un altro
giovane sognatore potrà effettivamente cavalcare un cristallo di luce solida e
rendere realtà il sogno del piccolo “grande” Einstein!
Approfondisci il tema su
Scienza e Conoscenza - n. 59 - Rivista Cartacea >> https://goo.gl/QbKsWF
Nuove scienze, Medicina non Convenzionale, Consapevolezza
venerdì 14 giugno 2019
Che cos'e' la Microimmunoterapia
Che cos'e' la Microimmunoterapia?
Curarsi con l'Omeopatia
La Microimmunoterapia è una terapia immunitaria
simil-omeopatica, basata sull’utilizzo di sostanze immunoregolatrici scoperte
negli ultimi decenni (interferoni, interleuchine, citochine) in dosaggi
analoghi a quelli omeopatici ed è utile per rafforzare il sistema immunitario
Fiamma Ferraro - 13/06/2019
La microimmunoterapia (MIT) ha come obiettivo
l’ottimizzazione, con rimedi in dosi microscopiche, del nostro sistema
immunitario, e di conseguenza la cura dei problemi di salute – acuti e cronici,
fisici e psichici – causati da un suo funzionamento difettoso e disregolato.
La Microimmunoterapia è una terapia immunitaria
simil-omeopatica, basata sull’utilizzo di sostanze immunoregolatrici scoperte
negli ultimi decenni (interferoni, interleuchine, citochine) in dosaggi
analoghi a quelli omeopatici (anche se non in diluizioni così elevate come
quelle proprie di molti rimedi omeopatici). Queste sostanze immunoregolatrici sono
naturalmente presenti nel corpo umano e svolgono i loro effetti in quantità
infinitesimali. Basterebbe questo fatto per dimostrare l’infondatezza delle
argomentazioni di coloro che criticano l’omeopatia, sostenendo che non è
possibile che delle sostanze introdotte nel corpo in quantità pressoché
inesistente producano degli effetti. Questo infatti è proprio quanto avviene
naturalmente nel corpo umano, in cui alcuni immunoregolatori svolgono il loro
compito pur essendo presenti in quantità infinitesimali.
La Microimmunoterapia non fa altro che copiare quanto
avviene normalmente in presenza di un sistema immunitario ben funzionante,
regolando quei casi in cui il sistema immunitario presenta delle disfunzioni,
nel senso di un’attività troppo acuta o troppo debole.
MIT e omeopatia classica: quali differenze?
Come già sottolineato la MIT è una terapia diretta a
ottimizzare il sistema immunitario attenuandolo quando è iperattivo, provoca
allergie e problemi di autoimmunità, e stimolandolo/ rinforzandolo quando
invece non è abbastanza attivo e non reagisce sufficientemente contro virus,
batteri, cellule anomale e altre sostanze nocive. Per ottenere questo effetto
la MIT ricorre alle moderne sostanze immunoregolatrici utilizzate anche
nell’immunoterapia convenzionale, prescrivendole tuttavia in dosaggi
“microscopici”, ottenuti tramite i processi di diluizione e dinamizzazione
propri dell’omeopatia, ma non uguali a quelli dell’omeopatia “classica” di cui
la MIT è considerata come una diversa, moderna evoluzione.
Mentre infatti l’omeopatia Hahnemanniana è basata sul
principio “similia similibus curantur”, il principio proprio della MIT è quello
di similitudine biologica: l’organo sano, somministrato in diluizioni diverse a
seconda dei casi, cura l’analogo organo malato.
Un’altra differenza tra la medicina omeopatica classica e
la MIT è che per arrivare a scoprire quale sia il preparato più adatto nei vari
casi individuali, l’omeopatia procede soprattutto tramite l’osservazione e
interrogazione del paziente, mentre la MIT utilizza soprattutto indagini di
laboratorio e complessi test diagnostici propri anche della medicina
“convenzionale”, tra cui la tipizzazione linfocitaria e lo studio sierologico
dei titoli anticorpali, al fine di verificare l’adeguatezza del sistema immunitario,
un eventuale stato di riattivazione virale e altro. Quanto all’entità della
diluizione dei rimedi da somministrare, la MIT applica il principio
Arndt-Schultz (approfondito dagli scienziati Rudolf Arndt ed Hugo Schultz) in
base al quale ogni stimolo esercitato sulle cellule viventi da farmaci,
elettromagnetismo o altro, provoca un’attività inversamente proporzionale
all’intensità dello stimolo: stimoli deboli rinforzano mentre stimoli forti
indeboliscono.
Pertanto anche i rimedi della MIT, quando si vuole
stimolare o rinforzare l’attività di un sistema immunitario che non sta
esercitando un’azione abbastanza energica per difenderci da virus, batteri e
altro, vengono somministrati in diluizioni che contengono la sostanza
terapeutica in quantità infinitesimale, mentre quando si vuole attenuare
un’azione troppo energica del sistema immunitario (attività che provoca
allergie e malattie autoimmuni) si impiegano diluizioni che contengono il
rimedio in quantità più consistente.
In sostanza è necessario, in ogni singolo caso, accertare
quali siano i prodotti contenenti le diluizioni più adatte per modulare in modo
ottimale l’attività del sistema immunitario.
I rimedi della MIT vengono somministrati in sequenze
precise, in modalità sub-linguale, (tramite la mucosa del cavo orale le
sostanze vengono efficacemente assorbite dal sistema linfatico). La MIT è
compatibile con la maggior parte delle altre terapie; non è compatibile con
interferoni o trattamenti immunosoppressivi che prevedano l’uso di cortisonici,
ciclosporina o azatioprina.
Di norma, quando si inizia una MIT occorre rivolgersi a
un medico esperto in questa materia e portare a termine l’assunzione dei rimedi
per i tempi indicati. È inoltre bene proseguire, finché necessario, anche le
terapie convenzionali eventualmente in corso...
Continua la lettura di questo articolo su
Scienza e Conoscenza n. 68 - Aprile/Giugno 2019 — Rivista
>> http://bit.ly/2YKRKHY
Nuove scienze, Medicina Integrata
mercoledì 12 giugno 2019
Guarire dal dolore al ginocchio: nuova terapia
Guarire dal dolore al ginocchio: nuova terapia
Medicina Non Convenzionale
Il dottor Corbucci propone un nuovo metodo di cura per i
problemi al ginocchio che permette un totale recupero della funzionalità
evitando l'intervento chirurgico
Massimo Corbucci - 11/06/2019
Nessuna parte del corpo sarebbe “dolorante”, se non ci
fosse un “sistema nervoso” a
“trasmettere” un danno tessutale, una lesione, una pressione, una
variazione termica, sotto forma di un “segnale”, il dolore.
La scoperta importante è che proprio nel sistema nervoso
che si nasconde il segreto della cura di alcune patologie fra cui il dolore
cronico al ginocchio.
Supponiamo che il ginocchio di un paziente si sia
bloccato, facendogli sentire un tremendo dolore. Il gonfiore, sovrapposto ad un
dolore di fondo molto fastidioso, suggerisce un problema all’interno del ginocchio,
che generalmente si pensa di diagnosticare con una artroscopia, una RMN, o
altri metodi di diagnosi per immagine.
Di solito, per fronteggiare una situazione del genere, se
si ricorre all’approccio medico tradizionale, la terapia sarà rappresentata
dalla somministrazione di farmaci antiflogistici, antidolorifici ed eutrofici
sulla formazione delle cartilagini strutturali del ginocchio. Il risultato è
ovviamente palliativo.
La terapia chirurgica è rappresentata da vari step, dove
si parte dall’infiltrazione semplice, per continuare con il tentativo di
pulizia attraverso una artroscopia. Possono seguire vari interventi chirurgici
a ginocchio aperto, fino ad arrivare alla sostituzione dell’intera
articolazione, con una protesi.
Ammesso e non concesso che dopo la protesi i problemi per
cui il soggetto ha deciso di sottoporsi ad un intervento così demolitivo e
invasivo, in parte si risolvano (cosa che non sempre avviene), resta il fatto
che l’impianto richiede frequenti sostituzioni nel tempo, rendendo
controindicata una tale procedura.
Ora esiste un’altra possibilità!
Grazie al nuovo metodo ideato dal Dott. Corbucci è
possibile cambiare il destino di tutte le persone che, ad una certa età non
necessariamente senile (talvolta giovanile), senza alcuna causa traumatica,
vedono insorgere problemi al ginocchio e che impropriamente curati, sono
vittime di pesantissime complicazioni, di gran lunga peggiori del problema
iniziale.
Per capire meglio il presupposto su cui poggia il nuovo
metodo di “MEDICINA CANALARE” ® del
dott. Corbucci, possiamo immaginare, per esempio, che dal menisco del ginocchio
parte un tubicino che sale verso la coscia, entra nella regione pelvica e poi
si insinua verso la colonna vertebrale dove, a livello delle vertebre T12-L1 si
collega con le vie spinali e da queste risale fino a sbucare nel piano cutaneo
dorsale.
Ora che abbiamo conosciuto l’esistenza di veri e propri
canali fisici che, dal piano cutaneo dorsale (livello spinale T12-L1)
COMUNICANO con le parti articolari del ginocchio (menisco, legamenti e tessuti
dello spazio articolare, compresa la vascolarizzazione e le vie linfatiche)
come utilizzare questa preziosa scoperta a livello clinico.
Diagnosi e cura passo per passo
Serve una DIAGNOSI iniziale che, intanto, ci consente di
conoscere:
1) Quanto dolore affligge il soggetto affetto da
gonartrosi (in una scala da 1 a 10)
2) Se, oltre al dolore, c’è anche un deficit motorio
dell’arto.
3) Se, oltre al dolore e al deficit motorio, c’è anche un
deficit propriocettivo che sostiene un disallineamento (in genere atteggiamento
antalgico) della gamba o un valgismo o, al contrario, un varismo, che incidono
sulla postura e sul tipo di deambulazione.
Dopo aver avuto la certezza oggettiva che il problema
apparentemente a carico del ginocchio e delle sue strutture interne è dovuto a
un vero e proprio deficit di conduzione di segnali neuro-fisiologici a carico
delle vie nervose che presiedono all'innervazione di quella parte del ginocchio
e di quelle strutture interne, possiamo capire quanto improprio e inutile
sarebbe sia l’approccio classico medico, sia
l’intervento chirurgico.
Terapia classica del dolore al ginocchio e intervento
chirurgico
L’approccio medico standard, vale a dire la terapia
medica che prevede la somministrazione “OS” o parenterale di antiinfiammatori
(FANS o STEROIDI) o di antidolorifici (OPPIACEI), sarebbe solo un palliativo
momentaneo, che ovviamente non può risolvere il problema insorto, destinato a
perdurare nel tempo e ad aggravarsi.
L’intervento chirurgico al ginocchio, sia che preveda la
programmazione di una serie di infiltrazioni di farmaci eutrofici sui tessuti
(acido ialuronico, condroitinsolfato,
cortisone…) o antidolorifici (lidocaina cloridrato…), sia che arrivi al caso
estremo dell’intervento per l’impianto di una protesi articolare, non può non suscitare considerazioni di carattere
clinico-pratico.
La più importante è quella che valuta il rapporto
rischio-beneficio, e la considerazione
circa l’intervallo di tempo lungo, richiesto dopo l’intervento stesso, per vedere se c’è stato o meno qualche
risultato. Infatti è richiesto un lungo periodo riabilitativo post-chirurgico,
che precede il primo tentativo di far deambulare liberamente il soggetto
operato di artro-protesi.
Purtroppo, in molti casi, nemmeno l’impianto della
protesi al posto del ginocchio, che sembrava la causa, determina la remissione
del dolore né permette di liberare l’arto dal blocco funzionale.
Allora qual è il percorso giusto da seguire?
Il percorso giusto da seguire è capire e neutralizzare la
causa del dolore al ginocchio. Nella totalità dei casi analizzati di dolore al
ginocchio, alla base del problema c’è una “radicolopatia” discale T12 – L1 in
cui al problema del ginocchio si accompagna una sciatalgia e una compromissione
funzionale e antalgica dell’arto inferiore, correlata con sovrapposte
discopatie L5 – S1, L4 – L5. La risoluzione di queste discopatie consente
l'istantaneo sblocco del ginocchio, la scomparsa del gonfiore e, di
conseguenza, del dolore, con la possibilità di una guarigione totale e
definitiva.
Pertanto la “ripolarizzazione” della via neurofisiologica
(cioè la corretta ripresa della differenza di potenziale di membrana sui neuroni
che hanno sofferto dello schiacciamento discale o di una semplice compressione)
equivale alla scomparsa del dolore riflesso sul ginocchio.
La ripresa dei segnali neuro-fisiologici si traduce in
una immediata cessazione dei processi degenerativi e nel ripristino di un
ottimale trofismo.
Avvenuta questa ripresa neuro-fisiologica iniziale,
l’impianto (usiamo questo termine preso in prestito dalla MESOTERAPIA) di
pochissime molecole di sostanze che partecipano al metabolismo tissutale delle
strutture cartilaginee, facenti parte delle strutture legamentose e di sostegno
dell’articolazione, hanno un effetto eutrofico sorprendente e di gran lunga più
efficace di una infiltrazione locale.
In 5 sedute il problema al ginocchio scompare
Con la prima seduta si ottiene l’immediata scomparsa dei
sintomi dolorosi, il ginocchio si sgonfia immediatamente e riprende la sua
forma naturale e la sua funzione articolare, antecedente all’insorgere del
problema.
Con una seconda seduta si possono individuare le “vie
neurofisiologiche” che nemmeno era possibile rilevare subito, in quanto
soverchiate da quelle maggiormente implicate nella disfunzione e nel dolore di
importanza più notevole. Queste vie di minore rilevanza, tuttavia, sostengono
limitazioni funzionali più lievi a carico dell’arto inferiore, persino non
inerenti il ginocchio, bensì altre parti anatomiche.
Queste potrebbero essere la tibia e le dita del piede
che, comunque, contribuiscono sensibilmente a disturbare una perfetta
deambulazione o quantomeno a far percepire un non perfetto atteggiamento degli
arti, fino ad un disallineamento rispetto all’arto contro laterale o ad una
linea di perfetta stazione eretta.
In una terza seduta, una volta accertato che la causa del
problema sia stata rimossa e che i disturbi funzionali sono stati eliminati
totalmente, si può cominciare un lavoro sull’eutrofismo dei tessuti, che
porterà alla perfetta guarigione del ginocchio, definitiva e duratura nel
tempo.
Quasi sempre il ginocchio rimesso in funzione con questo
tipo di procedimento, risulta poi essere in condizioni migliori del ginocchio contro-laterale che, oggettivamente, se all’inizio del problema
veniva portato dal paziente come termine di paragone per indicare una
funzionalità perfetta, infine sorprende il paziente stesso che lo percepirà
come ginocchio meno funzionante del ginocchio guarito.
Questo tipo di cura è dunque così efficace da permettere
di guarire un ginocchio in modo così perfetto che viene percepito, e appare
oggettivamente, in condizioni di gran lunga migliori, più sano dell'altro.
Al massimo in 5 sedute, distribuite nell’arco di poco più
di un mese, il caso di gonartrosi più grave che si possa inquadrare, certamente
candidato all’impianto di protesi, viene guarito perfettamente.
Ecco alcune testimonianze arrivate in redazione:
"Volevo ringraziare pubblicamente il dott. Massimo
Corbucci , mi ha ridato la vita, grazie infinite. Dopo lunghi anni di atroci
dolori ossei alla colonna vertebrale , si sono aggiunti gravi problemi alle
ginocchia. Ero praticamente ridotta con le stampelle in casa. Messuna cura
faceva effetto, notti insonni e vita distrutta. La disperazione, mi ha portato
a cercare qualcosa di alternativo; non potevo più intossicarmi con 4 scatole di
Feldene al mese, senza curare la causa (che reputavo alla colonna vertebrale)
ed essere derisa dagli ortopedici che, pensando fossi solo molto esaurita, mi
prescrivevano psicofarmaci (ho ancora le ricette). L'unico e il solo e' stato
il dott. Massimo Corbucci che mi ha creduto e confermato ciò che io pensavo,
cioè che il problema partiva dalla colonna vertebrale. A lui devo la mia nuova vita da allora non ho
più preso nessun farmaco e più passavano i mesi meglio stavo, ho ritrovato il
riposo, la mia colonna si e' raddrizzata, il ginocchio si è sgonfiato i dolori
atroci sono scomparsi. Che dire? Gli
angeli ci sono basta saperli trovare. Grazie dott. Corbucci Massimo." -
Lucia Micottis
"Mi chiamo Renata ed ho 49 anni e sono felice di
portare la mia testimonianza sull'operato del dottor Massimo CORBUCCI. Nel
periodo di tempo all'incirca di due anni durante i quali ho manifestato diverse
sintomatologie, all'inizio di sopportabile sofferenza divenuta poi ingestibile
stravolgendo la mia vita, mi sono rivolta al dottor. Corbucci presentandogli le
seguenti diagnosi: ernia lombare fuoriuscita e risalita, marcata sofferenza del
nervo ulnare con formicolio persistente alle dita anulare e mignolo della mano
sinistra, artrosi con calcificazione e fuoriuscita liquido dell'articolazione
della spalla destra, cervicalgia acuta e cronica della terza e quarta vertebra
cervicale, sofferenza al polso sinistro per tunnel carpale, emicranie
invalidati per giorni associate ad intolleranze alimentari. Le applicazione si
sono dimostrate da subito efficaci, con miglioramenti esponenziali e risolutivi
nell'arco di questi 2 mesi come preventivatomi. Sarò eternamente grata al
dottor Corbucci per avermi ridato la vita. Consiglio vivamente di fermarsi in
loco per valutare in condivisione con il dottor Corbucci i tempi di risposta
fisiologica ai trattamenti e le quantità di sedute. Ciò è fondamentale per la
risoluzione dei casi essendo tutti unici. Grazie da parte mia e del mio
compagno che ancora vive con il ricordo e l'onore di aver conosciuto un
grandissimo scienziato che si rivolge a tutti in maniera disponibile e semplice
con le parole di un amico".
lunedì 10 giugno 2019
Grassi: fanno bene o fanno male?
Grassi: fanno bene o fanno male?
Alimentazione e Salute
Pensi che i grassi facciano male e debbano essere
eliminati dall'alimentazione? Nei sei proprio sicuro? Oggi la scienza conferma
che i grassi non vanno demonizzati: basta saper scegliere quali consumare, in
che quantità e come
Fiamma Ferraro - 09/06/2019
I grassi si dividono in saturi, monoinsaturi e
polinsaturi: sai quali differeze ci sono tra queste categorie e a quale classe
appartengono i grassi presenti sulla nostra tavola?
I grassi saturi
I grassi animali, a eccezione di quelli di pesce, sono
tutti prevalentemente saturi, ma vi sono anche alcuni grassi saturi vegetali,
come ad esempio l’olio di cocco.
Un sondaggio recente condotto dal Medical Research
Council ha dimostrato che gli uomini che mangiavano burro correvano la metà del
rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie rispetto a quelli che
mangiavano margarina.
Risultati analoghi sono stati ottenuti in numerosi altri
studi. Mi limito qui a citare il più recente e importante, una meta-analisi
condotta presso l’Università di Cambridge, in cui sono stati analizzati 76
studi che hanno coinvolto mezzo milione di persone, arrivando alla conclusione
che coloro che assumono elevate quantità di grassi saturi non soffrono di
problemi cardiaci in misura superiore a coloro che evitano questi grassi.
Non molti decenni fa si raccomandava di sostituire il
burro con la margarina, composta da oli vegetali idrogenati, e cioè trattati
con una speciale procedura diretta a renderli solidi e più a lungo conservabili
senza pericolo di diventare rancidi. Si è poi ammesso che questi consigli erano
sbagliati, poiché i grassi idrogenati erano dei prodotti del tutto
“innaturali”, simili alla plastica, e hanno provocato molti danni alla salute.
Anche oggi molte persone quando leggono sulle etichette la dizione “grassi
vegetali” si sentono tranquillizzate: occorre invece perlomeno controllare che
vi sia la dizione “grassi non idrogenati”.
Le funzioni dei grassi saturi nel nostro corpo
Costituiscono almeno il 50% delle membrane cellulari (e
infatti, guarda caso, nei grassi del latte materno sono presenti per il 48 %
circa).
Svolgono un ruolo vitale nella salute delle nostre ossa.
Affinché il calcio possa essere bene integrato nelle ossa, il 50% circa dei
grassi alimentari dovrebbe essere saturo.
Sono necessari per il corretto utilizzo degli acidi
grassi polinsaturi-essenziali. Gli acidi grassi omega 3 sono meglio conservati
nei tessuti quando la dieta è ricca di grassi saturi.
L'acido palmitico è il grasso (saturo) che si trova
intorno al muscolo cardiaco e lo protegge.
Come accennato, non tutti i grassi saturi sono animali.
Ve ne sono anche di origine vegetale, che fino a poco tempo fa erano anch’essi
sconsigliati, come quello da noce di cocco, di cui stanno emergendo sempre di
più le proprietà benefiche (per il buon funzionamento della tiroide e, grazie
all’acido laurico in esso contenuto, per le sue proprietà antibatteriche e
antivirali). I grassi animali, il colesterolo e anche i grassi vegetali saturi,
a lungo demonizzati, iniziano ora a essere in parte rivalutati, ma la
rivalutazione procede troppo lentamente, e nelle linee guida “ufficiali”, nei
consigli dietetici popolari e nell’opinione pubblica sono ancora visti come
dannosi e da evitare.
I grassi monoinsaturi
Quanto ai grassi monoinsaturi (che peraltro contengono
anch’essi una parte di grassi saturi) è quasi inutile soffermarsi
sull’argomento poiché sono ben note e provate le proprietà benefiche dell’olio
d’oliva, al quale sono attribuiti molti degli effetti positivi della dieta
mediterranea: l’acido oleico dal quale è in gran parte formato è anch’esso
contenuto in notevoli quantità nel latte materno. Altri oli con buone quantità
di acido oleico sono quelli di mandorle, noci pecan, anacardi, arachidi e
avocado.
I grassi polinsaturi
Quanto ai grassi polinsaturi: i due acidi grassi
polinsaturi che si trovano con maggiore frequenza nei nostri alimenti sono
l'acido linoleico (omega 6) e l'acido linolenico (omega 3). Il nostro corpo non
può produrre questi acidi grassi, pertanto detti “essenziali”, e quindi il
nostro fabbisogno deve essere ricoperto tramite l'assunzione di alimenti che li
contengono.
Si tratta di oli altamente reattivi, che irrancidiscono
facilmente; non dovrebbero pertanto essere esposti alla luce e all’aria e
soprattutto non dovrebbero essere riscaldati: infatti i grassi saturi e
monoinsaturi (come quelli di cocco e d’oliva) che resistono meglio al calore,
provengono da climi caldi. I grassi polinsaturi vegetali omega 6 sono estratti
dalla soia, dal mais, dal cartamo, dal girasole, dalla colza e dal altri semi,
mentre gli omega 3 si trovano soprattutto nel pesce.
Ovviamente anche i grassi polinsaturi essenziali (crudi e
freschi) sono importanti e ne abbiamo assolutamente bisogno (costituiscono
dall’8% al 12% del totale dei lipidi contenuti nel latte materno) ma le
consuete raccomandazioni alimentari che li hanno additati e continuano ad
additarli come gli unici grassi sani, hanno portato a un loro consumo
eccessivo. Meglio sarebbe, pur con gli adattamenti del caso, attenersi anche
qui alle proporzioni che si trovano nel latte materno, e assumerli in
proporzioni non superiori a una media del 10% del totale dei grassi assunti
quotidianamente.
Omega 3 e 6: quanti ne consumiamo?
I problemi associati a un eccesso di acidi grassi
polinsaturi sono aggravati dal fatto che la maggior parte degli oli vegetali
polinsaturi commerciali sono sotto forma di acido linoleico (omega 6) con
pochissimo acido linolenico (omega 3). Numerose recenti ricerche hanno rivelato
che troppi omega 6 nella dieta creano uno squilibrio che può interferire con la
produzione di prostaglandine, il che può provocare una tendenza a coaguli nel
sangue, infiammazione, pressione alta, irritazione del tratto digestivo,
funzione immunitaria ridotta, sterilità, cancro e aumento di peso.
L’omega 3, spesso carente in proporzione all’omega 6, è
necessario per l'apporto di ossigeno alle cellule, per metabolizzare importanti
aminoacidi contenenti zolfo e per mantenere il giusto equilibrio nella
produzione di prostaglandine. Il giusto rapporto tra omega 6 e omega 3 sarebbe
di circa 4 volte più omega 6 che omega 3, ma dato che l’omega 6 è contenuto in
un’infinità di prodotti preconfezionati, spesso assumiamo oltre 20 volte più
omega 6 che omega 3. Le carenze di omega 3 sono state associate anche ad asma,
malattie cardiache e difficoltà di apprendimento.
Uno dei motivi per cui gli omega 6, ma anche gli omega 3,
possono causare problemi di salute è che tendono a ossidarsi e irrancidire se
sottoposti al calore, all'ossigeno e all'umidità. Gli oli rancidi sono
caratterizzati da radicali liberi. Il consumo eccessivo di oli polinsaturi ha
dimostrato in molti studi di contribuire a varie patologie tra cui il cancro e
le malattie cardiache, la disfunzione del sistema immunitario, diabete,
problemi alla prostata, danni al fegato, alla tiroide, agli organi riproduttivi
e ai polmoni, disturbi digestivi, crescita ridotta e aumento di peso.
Va tenuto presente che questi oli sopportano molto male
l’ossigeno e il calore e, anche se non li si riscalda o si assume l’omega 3
tramite pillole di olio di pesce, dentro di noi essi sono comunque sottoposti
al contatto con ossigeno e calore (alla temperatura interna del corpo umano) e
producono radicali liberi. Vanno quindi assunti insieme ad antiossidanti. In
particolare, quanto all’olio di pesce: i pesci che vivono in mari freddi hanno
14 volte più omega 3 rispetto ai pesci che vivono in mari più caldi, e noi, che
abbiamo una temperatura del corpo di 37 gradi, abbiamo probabilmente un bisogno
ancora minore di questa sostanza, pur indispensabile.
Inoltre, per assimilare bene gli omega 6 e 3 serve iodio,
di cui molti sono carenti. Come osservo spesso l’intero è meglio della parte:
mangiare pesce, che contiene anche iodio, sembra preferibile rispetto a
prendere pillole con solo olio di pesce. Meglio sarebbe assumere olio di krill
(il krill è un minicrostaceo che occupa il gradino più basso della catena
alimentare e quindi non accumula inquinanti; inoltre contiene omega 3 in forma
fosfolipidica e anche antiossidanti).
Quanti e quali: le raccomandazioni su grassi per chi è in
buona salute
Le mie raccomandazioni in relazione ai grassi, valide per
le persone in buona salute, sono di assumere una percentuale ragionevole di
grassi, pari al 45% circa delle calorie quotidiane, nella forma di grassi sia
saturi (un po’ meno della metà del totale dei grassi quotidiani) che
monoinsaturi (un po’ meno dell’ altra metà, in particolare nella forma
dell’olio d’oliva) completando il rimanente 10% circa con grassi polinsaturi,
comprendenti omega 6 in proporzioni di poco superiori agli omega 3 (facendo
attenzione a conteggiare l’omega 6 che, sotto forma di olio di girasole o con
la dizione generica di “oli vegetali” si trova in tanti prodotti
preconfezionati).
Una raccomandazione essenziale è inoltre quella di
cercare di assumere i grassi nella forma cruda (la loro consistenza viene
alterata quando sono surriscaldati). Se ogni tanto si deve friggere è bene
usare il grasso di cocco o semmai di oliva, mentre gli oli polinsaturi
(girasole, mais) non vanno mai usati. Tra l’altro, uno dei motivi per cui i
grassi saturi vegetali sono da preferire a quelli animali è che è difficile
poter mangiare grassi animali (anche quelli di pesce) nella forma cruda; per i
latticini vale la pena di cercare delle fonti igienicamente affidabili che li
offrono in forma non pastorizzata e omogeneizzata.
Non è infine nemmeno il caso di citare, in questo
articolo dedicato ai grassi alimentari, le margarine e i grassi
idrogenati-trans, che non sono degli alimenti ma sono dei non-cibi, dei
composti artificiali chimici che hanno già fatto gravi danni a seguito di una
pubblicità martellante che nei decenni trascorsi ha indotto molti a ritenere
questi grassi molto più sani di quelli saturi. Mi risulta incomprensibile il
fatto che dei prodotti chimici-industriali ottenuti riscaldando dei grassi
insaturi a temperature di oltre 200° con un catalizzatore a base di nickel o
altro, siano per decenni stati ritenuti più sani rispetto a un grasso che
costituisce la metà dei grassi contenuti nel latte materno.
Gli Oli della Felicità — Libro >> http://bit.ly/2Wzpcnj
Helene Lemaire
Omegreen - Integratore di Omega 3
Integratore di omega 3 EPA DHA al 70% in forma
trigliceride
Neptune Krill Oil - Olio di Krill dell'Antartico - 60
Softgels
mercoledì 5 giugno 2019
Akasa e la Teoria delle Stringhe
Akasa e la Teoria delle Stringhe
Medicina Non Convenzionale
Dall’antica sapienza indiana alla fisica dei quanti, la
dimostrazione che niente è separato, tutto è collegato, tutto è una cosa sola
Antonio Morandi - 05/06/2019
L’idea originaria di Ākāśa la troviamo espressa nei Veda,
il cuore della tradizione sapienziale dell’India da cui si è sviluppata tutta
la vasta letteratura scientifica e spirituale che sta alla base della cultura
indiana.
Per meglio comprendere il grado di complessità del tema è
importante precisare che nella cultura indiana il concetto di Ākāśa è
utilizzato in svariate modalità: in Āyurveda, la più importante Medicina
Tradizionale Indiana è uno dei 5 elementi che costituiscono il corpo umano,
nella Matematica Vedica è sinonimo di “zero” mentre nel Vastu Śastra, l’antica
forma di architettura vedica, indica l’idea dello “spazio” che tutto pervade.
Tutto quello che ha una forma, i “mattoni” della materia, gli organismi, le stelle,
l’universo intero deriva da Ākāśa.
Che cos’è Ākāśa
Tutto quello che è percepibile dai nostri sensi evolve da
Ākāśa, che tuttavia non è percepibile nella sua pura sostanza. L’elemento Ākāśa
è l’anello di congiunzione fra uno stato potenziale puramente energetico della
materia, il Brahman e l’Ātman della tradizione vedica, e la materia stessa. Da
Ākāśa evolvono tutti gli altri elementi, o stati della materia, chiamati Pañca
Mahābhūta secondo un ordine ben preciso di densità crescente: Ākāśa (Etere),
Vāyu (Aria), Tejas (Fuoco), Jala (Acqua) e Pṛthvī (Terra). Questa sequenza
evolutiva, che ritroviamo anche alla base dell’Āyurveda, è ben descritta in
tutti i Darśana, i sistemi di pensiero, o se vogliamo filosofici, tradizionali
dell’India.
La sequenza a densità incrementale dei Pañca Mahābhūta
racchiude in sé un dato di primaria importanza: ogni elemento più denso poiché
derivante dal precedente meno denso, ne contiene le proprietà. Quindi
l’elemento meno denso ha un’informazione e una potenzialità creativa ed
evolutiva, mentre quello più denso contiene l’informazione attuata del sistema.
Le proprietà base dei singoli elementi sono progressivamente più complesse man
mano che si progredisce nella sequenza. Ākāśa è caratterizzato dalla
diffusibilità, Vāyu dalla capacità di pressione, Tejas da calore radiante, Jala
dall’attrazione vischiosa e Pṛthvī dall’attrazione coesiva. Attraverso la
presenza di Ākāśa in ogni elemento si diffonde quindi l’informazione
dell’ordine primigenio. È evidente quindi come Ākāśa sia presente e
determinante in tutti i Pañca Mahābhūta. Ākāśa offre il background affinché
tutto avvenga.
Ākāśa e PrāṆa e la Teoria delle Stringhe
Secondo alcune correnti di pensiero indiane la spinta
propulsiva in questa evoluzione è il Prāṇa. La relazione fra Ākāśa e Prāṇa
determina la costituzione dell’universo e di tutta la realtà percepibile. Il
Prāṇa è la forza vitale ed evolutiva di ogni organismo vivente, è coincidente
con la capacità di esistere attraverso l’armonizzazione degli elementi, i Pañca
Mahābhūta, che lo costituiscono. La descrizione di Ākāśa ne evidenzia la
superiorità ontologica rispetto agli altri elementi. L’essenza stessa di Ākāśa
è quindi un’informazione, una qualità vibratoria primordiale e prototipica che
si diffonde e pervade, senza però che ci sia movimento.
È sconcertante come la descrizione di Ākāśa ricordi
quanto espresso nella moderna Teoria delle Stringhe sulla costituzione
dell’universo. Secondo questa teoria la realtà e le forze fondamentali della
Natura possono essere considerate come delle corde, stringhe appunto,
monodimensionali vibranti. Le stringhe hanno una dimensione infinitamente
piccola, a livello della costante di Planck (10-35m), si diffondono nello
spazio definendolo e interagiscono fra loro costituendo la rete della realtà:
esattamente quello che secondo la cultura indiana fa Ākāśa. E così come a un
livello dimensionale maggiore della costante di Planck le stringhe appaiono
come normali particelle, con massa, carica e altre proprietà determinate dallo
stato vibrazionale della stringa, Ākāśa a un livello maggiore di complessità si
evolve negli altri stati della materia, negli altri elementi o Mahābhūta, per
formare la realtà percepibile.
Continua la lettura di questo articolo su
Scienza e Conoscenza n. 68 - Aprile/Giugno 2019 — Rivista
>> http://bit.ly/2YKRKHY
Nuove scienze, Medicina Integrata
martedì 4 giugno 2019
Quando l'amore e' patologico
Quando l'amore e' patologico
Psicologia Quantistica
Capire i meccanismi biochimici alla base
dell’innamoramento e dell’amore ci aiuta ad avere consapevolezza dei nostri
sentimenti
Carmen Di Muro - 03/06/2019
Ci innamoriamo allo stesso modo in cui inciampiamo,
apparentemente per caso, senza volerlo e senza averlo programmato. Il nostro
centro di gravità emotiva si sposta e noi ruzzoliamo nelle mani della sorte.
“Innamorarsi” è come ritrovarsi in una scena dell’antica Grecia, dove la theia
mania ci può fulminare per il capriccio di una divinità qualsiasi.
Anche se ci piace pensare all’amore come un’esperienza
fatale, misteriosa e trascendente, la realtà è molto diversa. L’amore spesso
svela il nostro più latente lato “folle”. La singolare caratteristica della
ricerca sull’amore del XX secolo è che, di rado, ha potuto trattenersi
dall’utilizzare il linguaggio della psicopatologia. Gli amanti sono maniaci,
ossessivi, soffrono di attacchi d’ansia e si disperano.
Cosa si intende per amore patologico?
L’amore patologico (PL) è caratterizzato da comportamenti
ripetitivi volti ad accudire in maniera incontrollata il partner, dedicandogli
attenzioni costanti nel quadro di una relazione sentimentale. Il comportamento
tipico del PL assume un ruolo fondamentale nei soggetti che ne sono affetti al
punto da incidere negativamente su altri interessi preesistenti. Si tratta di
una manifestazione amorosa in virtù della quale, la persona, sperimenta un
sentimento possessivo incentrato sul bisogno dell’altro. La patologia può
manifestarsi nella sua forma primaria, ovvero isolata, in soggetti molto
insicuri, dominati da sentimenti di rifiuto, abbandono e rabbia. Altrimenti,
può associarsi a disturbi psichiatrici, soprattutto depressione e ansia.
Allorquando il PL si manifesta quale forma secondaria, intrattenere rapporti
patologici fonte di sofferenza costituisce comunque un sollievo da altri
sintomi.
Il fatto che tante persone vivano l’amore in modo
sgradevole, eppure continuino a inseguirlo, ha lasciato per lungo tempo i
ricercatori perplessi. In genere, tutti noi sappiamo che non si persevera in
comportamenti che portano infelicità. L’eccezione si presenta, invece, nel caso
si faccia ricorso ad agiti automatici che silenziano il frastuono dell’energia
emotiva mettendo sotto scacco il pensiero. Il miglior esempio per descrivere
questo stato è il “fenomeno dell’addiction”.
Una forma di dipendenza
La casistica indica che il PL presenta caratteristiche
cliniche sovrapponibili alla dipendenza da alcol, da droghe, ma anche da altre
attività. Il dato è stato corroborato dalla ricerca di alcuni studiosi presso
il Control Disorder Outpatient Clinic (AMITI: Clinica per pazienti affetti da
disturbi del controllo dell’impulsività) dove è stato possibile osservare e
trattare 64 soggetti per un periodo di due anni. I ricercatori hanno
confrontato i criteri proposti dall’American Psychiatric Association per valutare
le sostanze in grado di indurre dipendenza con le caratteristiche rilevate nei
soggetti affetti da PL.
In tal modo hanno proposto 5 criteri per diagnosticare il
PL:
segni e simboli di astinenza in assenza del partner
(insonnia, tachicardia, tensione muscolare, letargia, attività intensa);
intensificarsi del comportamento di accudimento e
preoccupazione nei confronti del partner, tanto da lamentarsene;
mancanza di controllo rispetto al proprio comportamento,
per cui si verificano tentativi fallimentari di interrompere il rapporto
nocivo;
dispendio di tempo dedicato a controllare il partner e
abbandono di altre attività sociali;
mantenimento del legame patologico nonostante i danni
familiari, personali e professionali dallo stesso provocati.
Tutte queste caratteristiche sono chiaramente tipiche
degli innamorati. Inoltre, amore e dipendenza mostrano ulteriori affinità
riguardo al mutamento dei fattori che li fanno durare nel tempo. All’inizio la
dipendenza è sostenuta dal piacere, ma tale intensità gradualmente diminuisce,
finché a sostenerla è il desiderio di evitare la sofferenza. Lo stesso vale per
l’amore, in quanto nella gran parete dei casi le relazioni finiscono sul
fondarsi non sul piacere, ma sulla volontà di evitare il dolore associato alla separazione.
Il corpo: una fonte naturale di sostanze dopanti
Lo psichiatra americano M. Liebowitz affermò che si
potevano raccogliere indizi sulla chimica alla base dell’amore individuando le
analogie tra le diverse fasi dell’amore e gli effetti di sostanze psicoattive.
L’iniziale slancio di eccitazione accostato all’innamoramento poteva essere
associato a sostanze chimiche simili alle anfetamine o ad altri stimolanti
(come la cocaina). Stati di tranquillità o sicurezza, invece, erano influenzati
da composti analoghi ai narcotici (come eroina, oppio o morfina), ai
tranquillanti (come il valium) o ai sedativi (come barbiturici, alcol e
cannabis). Inoltre, Liebowitz sostenne che le esperienze più trascendenti
legate all’amore, come l’accresciuta percezione della bellezza, l’impressione
di eternità e altre sensazioni spirituali erano veicolate da sostanze simili
agli psichedelici (come LSD, mescalina e psilocybin). In questo senso il corpo
umano può essere visto come una grande farmacia naturale che produce
anfetamine, barbiturici e psichedelici e questo spiegherebbe perché l’amore
viene tanto spesso paragonato alla dipendenza.
Per esempio, una delle sostanze chimiche più importanti
che vengono liberate quando due potenziali amanti si incontrano è la feniletilamina
(PEA), un composto simile all’anfetamina che risolleva l’umore e il livello di
energia. Di solito ad essa si associa il rilascio di ormoni della paura che
acuiscono i sensi, come l’adrenalina e la noradrenalina. Il potente cocktail di
PEA e ormoni attacco/fuga genera uno stato di vertiginosa eccitazione: un
flusso di energia potentissima. Tutto ciò mette in risalto il perché si
desideri l’amore con tanta intensità, ma anche perché interrompere un’avventura
romantica nelle sue fasi iniziali sia così doloroso. Anche se la coppia non si
conosce abbastanza a fondo, il rifiuto può essere devastante in quanto il
livello di PEA crolla di colpo e, proprio come un tossicodipendente, l’amante
cade in uno stato depresso e agitato.
L’affermazione di Liebowitz secondo cui c’è molto da
imparare dalle corrispondenze tra gli effetti dell’amore e quelli delle
sostanze psicoattive si è rivelata una pietra miliare, che ha dato il via a un
corpo sempre più ampio di ricerche biochimiche a supporto della sua tesi.
L’amore è una “molecola potentissima”: la forza
fondamentale che presiede il benessere psicofisico. E avvicinarsi all’amore con
un’ottica scientifica, comprendere le sue dinamiche patologiche, imparare a
riconoscere i processi biologici che lo sottendono non attenuerà l’intensità
con cui lo viviamo, non spegnerà la sua meraviglia ma, anzi, potrà aiutarci a
lenire la sofferenza che spesso si lega a queste condizioni e che molto spesso
può sfociare in patologia a tutti i livelli. La biologia non degrada i sentimenti,
ma ci rende consapevoli del fatto che la loro origine è nel nostro essere e
farci corpo.
Riconoscere che l’amore è un’energia dinamica che alberga
dentro di noi, nel profondo della nostra anima, diviene il mezzo per
riconoscere in pieno la sua grandezza. Grandezza che diviene ancora maggiore
quando, vivendo pienamente nell’amore, l’uomo diventa capace di superare se
stesso.
BIBLIOGRAFIA
Fisher H, 1992. Anatomy of love. New York, Fawcett
Columbine.
Gonzales-Maeso J & Sealfon SC, 2009. Psychedelies and
schizophrenia. Trends Neurosci; 324: 225-232
Liebowitz M, 1983. The chemistry of love. Boston. Little
Brown and com.
Moss E, 1995. Treating the love-sick patient. Isr J
Psychiatry Relat Sci; 32: 167-173.
Sophia EC, Tavares H, Berti M, Pereira AP, Lorena A,
2009. Pathological love: Impulsivity, Personality and Romantic Relationship;
CNS Spectr; 14(5): 268-274.
Tallis F, 2005. Love Sick. Love is a mental illness.
Thunder’s Mounth Press.
eBook - Spiritual Mind >> http://bit.ly/2SDXUFF
Nuove prospettive di guarigione tra fisica quantistica e
coscienza
Carmen Di Muro
Essere è Amore - Libro
Dal pensiero alla materia - Viaggio scientifico nella
pura essenza
Carmen Di Muro
Anima Quantica - Libro
Nuovi orizzonti della psiche e della guarigione
Carmen Di Muro
Iscriviti a:
Post (Atom)