giovedì 5 settembre 2019

Bambini con ADHD: quali cause?




Bambini con ADHD: quali cause?

Valerio Pignatta - 01/01/2016

Gli studi del neurobiologo Jaak Pansepp dimostrano come l’insorgere sempre più frequente di disturbi psichiatrici nei bambini – ne è un esempio la dilagante “epidemia” di ADHD – sia correlata all’impossibilità di sperimentare il gioco fisico, non indirizzato, nella natura e tra coetanei. Il gioco libero stimola la subcorteccia cerebrale, sede delle nostre emozioni di base, e conseguentemente porta all’ottimale maturazione della corteccia, sede di funzioni più evolute come la creatività e l’interazione sociale.

Con vari articoli pubblicati nell'ultimo trentennio su autorevoli riviste scientifiche, il noto ricercatore americano di origine estone Jaak Panksepp ha posto degli interrogativi e proposto delle soluzioni al problema della sindrome da deficit dell'attenzione e iperattività (conosciuta anche come ADHD, Attention Deficit Hyperactivity Disorder).

Salvo alcuni casi illuminati e limitati a professionisti della mente particolarmente attenti, ci pare di poter affermare che queste enunciazioni scientifiche non siano state ancora recepite dalla comunità internazionale degli psichiatri, sebbene siano a nostro parere di fondamentale importanza per capire il crescente fenomeno dei disturbi comportamentali e psiconeurologici che molti bambini vanno manifestando nei paesi “industrializzati”.
Negli anni, questo neurobiologo ha pubblicato più di 420 articoli scientifici sui rapporti tra emozioni, intersoggettività, socializzazione, sistemi motivazionali e comportamento.
Il suo ampissimo lavoro di ricerca vuole esplorare le modalità attraverso le quali dallo studio dell’organizzazione neuronale delle emozioni nel cervello dei mammiferi (e quindi anche in quello umano) si possano capire le emozioni stesse e i loro disturbi nell’uomo adulto e nei bambini. Egli ha condotto molte ricerche sui meccanismi cerebrali alla base della rabbia, della paura, dell’angoscia da separazione (panico) e sui disturbi neuropsichiatrici che derivano da un deterioramento di questi sistemi.
Panksepp ha anche studiato quali sono le sostanze cerebrali (in particolar modo i neuropeptidi) che regolano i legami sociali e i sentimenti sin dalla più tenera infanzia. Le conseguenze pratiche delle sue ricerche sperimentali hanno portato alla possibilità di sviluppare un approccio multidisciplinare nell'affrontare i disturbi dello sviluppo cognitivo e comportamentale del bambino, come l'autismo e appunto la sindrome ipercinetica.

L’importanza del gioco non indirizzato

Panksepp ha messo in evidenza l'importanza della socializzazione per l'acquisizione da parte del cervello in formazione dei bambini di norme comportamentali, capacità di interagire, manifestazione delle proprie emozioni, rispetto dell'altro ecc.
Oggigiorno, la sindrome da deficit dell'attenzione e iperattività (ADHD) è diagnosticata sempre più spesso e questo avviene a un ritmo allarmante. Del pari, psicostimolanti estremamente efficaci di cui non si conoscono ancora chiaramente gli effetti sul cervello in formazione vengono prescritti sempre più frequentemente da una classe medica che, purtroppo, non è al corrente degli studi di neurobiologia emozionale più recenti.
Secondo le ricerche di Panksepp, si può presupporre che l'aumento del numero di casi di ADHD si spieghi soprattutto con l'impossibilità per questi bambini di interagire con altri coetanei mediante il gioco. Studi pre-clinici indicano che il gioco aiuta gli animali in fase di crescita fisiologica e psicologica a superare le proprie inibizioni comportamentali. D'altro canto, gli psicostimolanti somministrati per tamponare i disturbi comportamentali in bambini ipercinetici diminuiscono la loro voglia di giocare e di vivere. La riflessione principale e determinante cui arriva Panksepp coi suoi studi è che la natura è stata rimossa dalla vita della maggior parte dei bambini che vivono nel mondo occidentale.

Troppo pochi bimbi hanno l'opportunità di buttarsi nella mischia del gioco fisico con i loro compagni.
Intelligenza, umanità e creatività sono programmi genetici che non trovano le condizioni ideali per svilupparsi – come dovrebbero – con il gioco, perché il gioco naturale, soprattutto quello non organizzato nella natura, non fa più parte del “curriculum” di molti bambini. Panksepp precisa che i suoi surrogati, siano essi sport organizzati o giochi coordinati o preparati (piscinetta, parco, compleanni ecc.), sono pallide imitazioni del gioco reale. La maggior parte dei genitori e degli educatori, anche professionisti, non riconosce ancora il profondo valore del gioco naturale, ossia di quei “giochi che la natura stessa suggerisce a quell'età”. Molti immaginano tali attività come forme incipienti di educazione all'aggressione e alla prevaricazione. Ma in realtà la questione si pone in termini molto diversi.
Sebbene il predominio sembri essere un aspetto naturale e preponderante nel gioco fisico, con la giusta attenzione e ben indirizzato, esso potrebbe essere finalizzato alla promozione della sensibilità sociale.

Molti genitori e altrettante scuole trascurano i bisogni del gioco presumendo che trattare i bambini come se fossero dei piccoli adulti faciliti la crescita di futuri cittadini perfettamente integrati nella società. Ma, sottolinea Panksepp, non ci sono evidenze scientifiche che un giovane ragazzo possa maturare nel modo migliore e completo senza la soddisfazione del gioco quotidiano, il primo strumento che Madre Natura ha fornito per l'educazione sociale.
Una maturazione del cervello in funzione favorevole alla società forse potrebbe essere agevolata attraverso la presenza di abbondanti quantità di gioco naturale per tutta la durata della prima infanzia. I giochi “scalmanati” vanno interpretati come un importante preludio ai giochi associativi maggiormente elaborati, che implicano giochi di finzione e drammatizzazioni fantasiose nei. Secondo Panksepp, se le attuali società industrializzate non intraprenderanno iniziative finalizzate alla promozione del gioco naturale, oltre all'ADHD, potranno comparire in modo diffuso tra i ragazzi altre patologie neuropsichiatriche e conseguenze psicologiche di vario tipo.
Consistenti studi dimostrano chiaramente che tutti gli psicostimolanti utilizzati a piene mani nelle nostre società riducono la gaia pienezza sensoriale ed emozionale del gioco (sia nei giovani animali che negli umani): questo è profondamente preoccupante. Il gioco “primitivo” e le soddisfazioni a livello emozionale che esso implica riducono la frequenza dell'impulso a scardinare l'autocontrollo, promuovendo le funzioni regolatrici del lobo frontale che si attivano a favore di dinamiche sociali collaborative e interagenti.

Dagli psicofarmaci ai centri per il gioco

Non è quindi privo di fondamento approfondire l'idea secondo la quale gli interventi sotto forma di gioco intensivo con altri bambini possono alleviare i sintomi dell'ADHD. Senza contare che potrebbero esserci anche benefici indiretti: ad esempio Panksepp sostiene che una sessione di trenta minuti di gioco fisico da mezzora a un'ora prima di coricarsi può ridurre tutti i comuni problemi o rifiuti dell'andare a dormire nei bambini e nei ragazzi. Un altro effetto collaterale di un vivere attivo, giocoso e felice viene individuato nella riduzione dell'incidenza della depressione nei bambini e di conseguenza negli adulti. La depressione giovanile è devastante per l'allegra vitalità del gioco ed è noto che la cessazione della somministrazione di psicostimolanti può indurre depressione. Secondo Panksepp la società odierna occidentale deve arrivare a sostituire i farmaci con “centri per il gioco” destinati ai ragazzini a rischio, al fine di favorire la maturazione del lobo frontale del loro cervello e di svilupparne la socializzazione.

Cervello, movimento ed emozioni

Molte evidenze empiriche supportano l'esistenza di un minimo di sette prototipi di sistema emozionale in tutti i cervelli mammiferi: ricerca (seeking), rabbia, paura, sessualità, cura, panico e gioco. In modo grossolano si può dire che il primario processo di coscienza affettiva sembra essere fondamentalmente un incondizionato dono della natura piuttosto che una capacità acquisita, anche se quei sistemi, base di partenza presente nello sviluppato apparato attivo emozionale dei cervelli dei mammiferi, facilitano acquisizioni di capacità attraverso vari rafforzamenti del “sentito”. Il comportamento comunque sopravvive a una decorticazione cerebrale radicale. Panksepp ha dimostrato che animali senza alcuna neocorteccia giocano vigorosamente (1).
Secondo Panksepp, è nell'area del tronco encefalico che si fonda la genesi evolutiva della coscienza. Essa è la sede dei primi sistemi motori organizzati che originerebbero gli stati di coscienza affettivi. Studi condotti su pazienti colpiti da ictus che hanno subito la lesione di parti rilevanti della superficie corticale confermerebbero questa ipotesi dato che, tranne rare eccezioni, in questi casi i soggetti conservano sia la coordinazione motoria che un buon livello di coerenza individuale.
Il neurobiologo pone quindi il centro del Sé (self, simple ego life form) a livello subcorticale e le condizioni del suo sviluppo a uno stadio evolutivo precoce, a partire da processi motori organizzati in modo riflesso e via via sempre più orientati in senso affettivo e cognitivo. Sono ovvie quindi le implicazioni di tutto ciò per disturbi comportamentali come l'ADHD che si vogliono sedare con risposte neurochimiche indotte e non con stimoli in primis motorio-comportamentali e di conseguenza cognitivo-emozionali.
Le attività del cervello si compongono di un funzionamento subcorticale e di un funzionamento corticale. Panksepp ci spiega che «le zone subcorticali nel cervello sono la fonte delle emozioni di base degli esseri umani. Le zone corticali nel cervello – sede di funzioni quali la creatività e l’interazione sociale – maturano se permettiamo al bambino di giocare».Mentre questo funzionamento subcorticale è inconscio nella vita umana adulta, nella vita infantile è centrale, sia perché lattività corticale nella prima infanzia non è ancora coordinata e quantitativamente limitata, sia perché il cervello umano raggiunge la sua maturità solo se si procede a partire dai primi gradini della scala – l’attività subcorticale – un gradino alla volta, nel modo giusto.Per questo Panksepp afferma che una società che non investe sulla possibilità del bambino di giocare e di trovarsi nella natura, molto facilmente potrà essere una società di individui adulti non perfettamente maturati secondo il progetto della natura stessa.
Il gioco come pulsione neurologica

Dunque Panksepp incoraggia gli educatori a non sottovalutare il valore del gioco, e incoraggia a ritrovare i momenti ludici del bambino nella natura, eliminando gli interventi razionali di persone che non riconoscono le sue reali necessità: il bambino è diverso dall'adulto e ha bisogno del gioco. L´adulto potenziale che è in ogni bambino ha bisogno del gioco come strumento di crescita di strutture neurologiche programmate dal nostro genoma.
«Lo stimolo al gioco – scrive Panksepp – è una pulsione neurologica. L'attività di circa un terzo dei 1.200 geni del cervello che noi valutiamo essere presenti nelle regioni corticali frontale e posteriore è significativamente modificata dal gioco nell'ora seguente una sessione di attività ludica di trenta minuti» (2).
Tali impulsi neurobiologici filtrano continuamente, ogni giorno, in ogni bimbo normale. Già nel 1988 (3) Panksepp avvertiva che se questi impulsi avessero continuato a rimanere per la maggior parte inappagati, si sarebbero presentate delle conseguenze, e una di queste poteva essere l'aumento dell'incidenza di ADHD. Le sue predizioni si sono rivelate veritiere.

Lobo frontale e ADHD

Misurazioni del flusso sanguigno cerebrale con PET (tomografia a emissione di positroni) hanno mostrato che soggetti con una attenuata attività del lobo frontale presentavano una diminuita creatività, deficit psichici e abbondanti sintomi negativi sia mentali che emozionali. Ora, al fine di facilitare la maturazione del lobo frontale e lo sviluppo salutare di menti favorevoli alla vita sociale, i bambini necessitano del gioco. E per sfruttare al massimo questi doni genetici dovremmo creare ambienti sociali per i bambini che non solo permettano, ma incoraggiano il soddisfacimento dei naturali, gioiosi e imperiosi bisogni di gioco (4). Panksepp sostiene che se impariamo a ristabilire il potere del gioco nei nostri programmi educativi pre-scolastici in modi nuovi e creativi, potremmo promuovere le funzioni esecutive del lobo frontale (5) e, in tal modo, invertire l’inarrestabile proliferazione dell’ADHD. È quindi assolutamente dimostrato che l'ADHD ha a che fare con la maturazione del cervello: a livello neuroscientifico sappiamo che i bimbi con ADHD presentano qualche insufficienza nelle funzioni esecutive del lobo frontale (6). La regolazione delle capacità del lobo frontale promuove il miglioramento di attitudini come «autoriflessione, immaginazione e creatività nel gioco»: queste abilità esecutive favoriscono una specie di «flessibilità e previdenza comportamentale» che costituisce «comportamenti in direzione di uno scopo e ben focalizzati».

Va precisato che le cognizioni sono in gran parte corticali, mentre le affezioni in gran parte subcorticali. Ma i processi cortico-cognitivi superiori che aiutano a regolare l'emozionalità emergono solo gradualmente man mano che l'organismo matura. Questi due stati sovrapposti, subcorticale e corticale, interagiscono continuamente anche se noi non ce ne rendiamo conto. Studi sull'immaginazione ci dicono che molte aree superiori del cervello (corticale, cognitiva) ‘‘si accendono’’ durante l'induzione di emozioni.
In pratica se una persona è triste è anche più facile che commetta un maggior numero di errori. Le aree subcorticali sono adibite a scopi molto speciali: si tratta di circuiti geneticamente dedicati alle varie emozioni e motivazioni che nelle regioni subcorticali sono condivise da tutti i mammiferi.

La natura distante: verso la standardizzazione tecnologica

«Dubitiamo – afferma Panksepp – che sarà mai possibile svelare l'intrinseca natura degli aspetti superiori del binomio cervello-mente umani senza prima avere una solida comprensione degli aspetti che ne stanno alla base – i processi archetipici emozionali-motivazionali che tutti i mammiferi condividono».
Per contro, come società, reagiamo all'ADHD con psicofarmaci come il Ritalin e altri medicinali chimici della stessa specie. Ma la sensibilizzazione agli psicostimolanti rende i soggetti ancor più insistentemente materialisti – più desiderosi di ogni specie di ricompensa edonistica (7). La sensibilizzazione agli psicostimolanti riduce gli stimoli dei bambini al gioco e quindi non aiuta una normale e salutare maturazione del cervello.
Inoltre, le sempre crescenti aspettative educative standardizzate insieme all'aumento dell'intolleranza nei confronti gaia giocosità dei bambini potrebbero costituire un’ulteriore ragione del dilagare delle diagnosi di ADHD (8).
Già Platone (9) nell'antichità invitava a lasciar giocare liberamente i bambini, perché riteneva che fosse un'attività determinante per la loro formazione. Oggi siamo a tal punto immersi nella tecnologia da esserci completamente dimenticati che là fuori esiste un mondo reale con il quale, volenti o nolenti, dobbiamo avere a che fare se vogliamo evolvere completamente secondo le nostre predisposizioni e potenzialità, genetiche e antropologiche.

Note

1) Panksepp J., Normansell L. A., Cox J.F., Siviy S., “Effects of neonatal decortication on the social play of juvenile rats”, in Physiology & Behavior, vol. 56, 1994, pp. 429–443.
2) Burgdorf J., Panksepp J., Brudzynski S.M., Kroes R., Moskal J.R. “Breeding for 50-kHz positive affective vocalizations in rats”, in Behav Genet 2005, 35:67–72.
3) Panksepp J., Affective neuroscience: The foundations
of human and animal emotions, Oxford University Press, New York, 1998.
4) Panksepp J., Affective neuroscience: The foundations
of human and animal emotions, Oxford University Press, New York, 1998.
Panksepp J., “The long-term psychobiological consequences of infant emotions: Prescriptions for the twenty-first century”, Infant Mental Health Journal, 22, 2002, 132–173.
5) Barkley R. A., “ADHD and the nature of self-control”, Guilford Press, New York, 1997.
Panksepp J., Burgdorf J., Gordon N. & Turner C., “Modeling ADHD-type arousal with unilateral frontal cortex damage in rats and beneficial effects of play therapy”, Brain and Cognition, 52, 2003, 97-105.
6) Castellanos F.X. & Tannock R., “Neuroscience of attention deficit/hyperactivity disorder: The search for endophenotypes”, Nature Reviews Neuroscience, 3, 617-628, 2002.
7) Nocjar C., Panksepp J. “Chronic intermittent amphetamine pretreatment enhances future appetitive behavior for drug- and natural-reward: interaction with environmental variables” in Behav Brain Res 2002, 128:189–203.
8) Panksepp J., “Attention deficit disorders, psychostimulants, and intolerance of childhood playfulness. A tragedy in the making?”, Current Directions in Psychological Sciences, 7, 1998, 91–98.
9) Platone, Leggi, libro VII, 794.

Chi è Jaak Panksepp

“Neuroscienziato delle emozioni” – così come è stato definito – lavora al Dipartimento di veterinaria, anatomia comparata, farmacologia e fisiologia della Washington State University ed è professore emerito al Dipartimento di psicologia della Bowling Green State University. In aggiunta al suo impegno nella ricerca e nella didattica accademica, Panksepp ha fondato e diretto l'organizzazione no-profit “Memorial Foundation for Lost Children”, che ha avuto il merito di fornire informazioni indipendenti e consigli ai genitori dei bambini affetti da disordini neuropsichiatrici, in particolare autismo e ADHD.
Il professor Panksepp è comparso due volte in popolari trasmissioni televisive: in una trasmissione alla BBC intitolata “Oltre il gioco” e su Discovery Channel in “Perché il cane sorride e lo scimpanzè piange”. In queste occasioni Paksepp ha parlato della sua scoperta relativa allo squittio di gioia dei topi, emesso ad una frequanza di 50 kHz, conseguente l'induzione al gioco.

Bibliografia

Panksepp, J., “Attention deficit hyperactivity disorders, psychostimulants, and intolerance of childhood playfulness: A tragedy in the making?”, in Current Directions in Psychological Science, vol. 7 (9), 1998, pp. 1-98.
Panksepp, J., “Affective consciousness: Core emotional feelings in animals and humans”, in Consciousness and Cognition, vol. 14, 2005, pp. 30-80.
Panksepp, J., “Can PLAY Diminish ADHD and Facilitate the Construction of the Social Brain?”, in J. Can. Acad. Child. Adolesc. Psychiatry, vol. 16(2), maggio 2007, pp. 57-66.
Panksepp, J. e Burgdorf, J., “'Laughing’ rats and the evolutionary antecedents of human joy?”, in Physiology & Behavior., vol. 79, 2003, pp. 533– 547.

Curare i Disturbi d'Attenzione e di Comportamento dei Bambini — Libro
I danni degli Psicofarmaci - I benefici dei rimedi naturali e di un'alimentazione sana
Abram Hoffer

Adhd e Compiti a Casa — Libro
Strumenti e strategie per bambini con difficoltà di pianificazione, di organizzazione e fragilità di attenzione
Gianluca Daffi, Cristina Prandolini

mercoledì 21 agosto 2019

Neutrino: la vera particella di Dio fantasma



Neutrino: la vera particella di Dio fantasma

Scienza e Fisica Quantistica

>> http://bit.ly/2LzQgg5      

Perché possiamo definire il neutrino la vera "particella di Dio"? Quali questioni fondamentali di fisica potrebbero essere risolte con lo studio delle caratteristiche non ancora note di questa particella?

Luigi Maxmilian Caligiuri - 14/08/2019

Mentre scrivo quest’articolo, qualche trilione di neutrini, prodotti dal Sole, generati dalla radioattività terrestre, dai reattori nucleari e dagli elementi radioattivi presenti nel corpo umano, mi attraversa ogni secondo senza che io praticamente me ne accorga. Il neutrino è, infatti, la sola particella elementare, sinora conosciuta, in grado di attraversare la materia senza praticamente “disturbarla”. A puro titolo di esempio basti pensare che un neutrino sarebbe in grado di attraversare molti miliardi di volte una vasca riempita d’acqua lunga quanto la distanza che separa la Terra dalla Luna prima di interagire con una singola molecola d’acqua e che ogni centimetro quadrato della nostra pelle è colpito ogni secondo da circa 65 miliardi di neutrini senza alcuna conseguenza.

Il neutrino è la “vera” particella di Dio

La ragione di siffatto straordinario comportamento è legata alle peculiari caratteristiche di questa enigmatica particella che, oseremo dire, potrebbe essa sì, a ben ragione, essere soprannominata la “particella di Dio”, data anche l’importanza che essa riveste in numerosi processi fisici fondamentali.

Il grande filosofo greco Eraclito era solito affermare che “la natura delle cose ama nascondersi” e il compito e la missione della scienza, e della fisica in particolare, è di scoprire tale natura. Nel caso del neutrino, allora, la strada giusta per conquistarne i segreti passa attraverso l’elaborazione di un modello teorico coerente e non contraddittorio in grado di spiegarne le caratteristiche note e prevederne quelle ancora ignote da un lato e di progettare e realizzare esperimenti in grado di rilevare tali caratteristiche dall’altro.

Sappiamo che i neutrini intervengono in numerosi fenomeni fisici fondamentali, dal funzionamento delle stelle alle reazioni nucleari, e probabilmente in molti altri non ancora ben compresi. Fin dalla sua scoperta fu subito chiaro che lo studio delle sue proprietà si sarebbe rivelato particolarmente ostico anche perché, a causa delle sue caratteristiche, la rilevazione delle sue eventuali interazioni avrebbe in generale richiesto la messa a punto di apparati sperimentali complessi e costosi, oltre che di difficile ubicazione (è necessario, infatti, che i rivelatori usati in tali esperimenti non siano influenzati dal “rumore” dovuto alla presenza di altre particelle in grado di determinare dei falsi positivi), essendo la massa dei neutrini particolarmente esigua (e non risentendo, pertanto, dell’attrazione gravitazionale) ed essendo essi privi di interazioni di tipo elettrico (avendo carica elettrica nulla) e magnetico.

Intorno al 1940 cominciò a farsi strada l’idea, avanzata dal fisico Hans Bethe, che una delle sorgenti più intense dei neutrini, rispetto alla Terra, sarebbe stata da ricercare nelle reazioni nucleari che avvengono all’interno del nostro Sole e qualche anno dopo, un gruppo di ricercatori giapponesi guidati da Shoichi Sakata, dimostrò che ciò che veniva chiamato neutrino, in realtà, dal punto di vista sperimentale, poteva consistere in un insieme di componenti.

Negli anni successivi, una serie di lavori di carattere sia teorico che sperimentale, indicanti chiaramente la natura “nucleare” dei neutrini, modificarono sostanzialmente il quadro allora noto della fisica delle particelle elementari. Circa nello stesso periodo Bruno Pontecorvo ipotizzò che i neutrini emessi dal Sole potessero “oscillare”, durante il loro cammino verso la Terra, trasformandosi e modificando le proprie caratteristiche, possibilità che, come vedremo, si rivelò fondamentale in relazione a un’altra caratteristica peculiare di tale misteriosa particella e per spiegare le anomalie riscontrate nella produzione dei neutrini solari la cui analisi, sin dal 1968, aveva evidenziato un comportamento apparentemente inspiegabile. I calcoli avevano infatti evidenziato che il numero di neutrini rilevati risultata significativamente inferiore rispetto a quelli previsti in base ai modelli teorici disponibili.

A partire dal 1962, lo studio delle caratteristiche di alcune particolari interazioni tra particelle richiese l’introduzione di due ulteriori tipi di neutrini, oltre a quello relativo alle particelle beta (ovvero il neutrino elettronico), rispettivamente associato ad altre due particelle elementari, il tauone e il muone.

Questa necessità evidenzia un’altra caratteristica unica del neutrino, ovvero la sua possibilità di manifestarsi in tre forme (denominate “sapori”) differenti, ognuna accompagnata dalla rispettiva antiparticella (antineutrino).

Neutrini: aveva ragione Dirac o Majorana?

Ancora più interessante, come vedremo meglio nel seguito anche in relazione a ciò che riguarda il mistero dell’asimmetria tra materia e antimateria, risulta la questione riguardo la vera natura dei neutrini, vale a dire se essi rispecchino la descrizione formulata da Paul Dirac o quella, alternativa ed estremamente più affascinante, proposta dal grande Ettore Majorana. Anche i tentativi di inquadrare i neutrini nell’ambito della descrizione più completa delle particelle elementari oggi comunemente accettata, vale a dire il cosiddetto modello standard, conducono a insuperabili contraddizioni poiché questo prevede, per i neutrini, una massa a riposo nulla e dunque una velocità pari a quella della luce nel vuoto.

Tuttavia, già verso la fine del secolo scorso, i dati provenienti dagli apparati atti a misurare le interazioni dei neutrini solari e di quelli generati dalla radiazione cosmica sull’atmosfera terrestre, risultavano incompatibili con le previsioni del modello standard, suggerendo un valore diverso da zero per la loro massa, laddove invece, paradossalmente, le misurazioni eseguite considerando i neutrini prodotti artificialmente sulla Terra e misurati nelle vicinanze delle loro sorgenti, sembravano rispettare tali previsioni (fornendo quindi un valore pari a zero per la loro massa a riposo).

Come discuteremo nel seguito, la risoluzione, almeno parziale, di questo “puzzle” non è stata per nulla semplice da trovare e, possiamo anche dire, non sembra ancora neanche del tutto definitiva.

Continua la lettura di questo articolo su:

Scienza e Conoscenza n. 69 - Luglio/Settembre 2019 - Rivista >> http://bit.ly/2LzQgg5
Nuove scienze, Medicina Integrata

venerdì 2 agosto 2019

La medicina è una sola: scienza e serendipity



La medicina è una sola: scienza e serendipity

Medicina Non Convenzionale


Il dottor Stefano Fais ci propone un'interessante riflessione sul vero senso della ricerca scientifica in medicina

Stefano Fais - 02/08/2019

Questo articolo è tratto da Scienza e Conoscenza 69.

Come scienziato non mi interessa attribuire grande importanza a termini quali non convenzionale, integrata, alternativa quando sono riferiti alla medicina. Per me, nella scienza, la cosa realmente importante è mantenere un approccio alla procedura sperimentale aperto, privo di chiusure aprioristiche e dogmatiche tale per cui ciò che a prima vista potrebbe apparire come un errore, o qualcosa di insignificante, potrebbe rivelarsi una grande scoperta se solo siamo capaci di cambiare l’angolazione, la prospettiva, da cui osserviamo il fenomeno in esame.

Quando si parla di serendipity ci si riferisce alla scoperta di qualcosa mentre si stava cercando qualcos’altro. L’esempio classico, in questi casi, è quello relativo alla penicillina.
Fleming stava studiando lo Staphylococcus influenzae quando una delle sue piastrine di coltura si contaminò e su di essa si sviluppò un’area ben delimitata priva di batteri: il resto della storia lo conosciamo tutti. Nel 2008 il «Financial Time» ha pubblicato un articolo provocatorio sul ruolo della serendipity nel futuro della medicina. In realtà la serendipity ha avuto un ruolo chiave nella scoperta di un’am-pia gamma di farmaci psicotropi, tra cui l’anilina viola, il dietilamide dell’acido lisergico, il meprobamato, la clorpromazina e l’imipramina.

Quando un ricercatore fa una scoperta mediata dalla serendipità deve prestare un alto livello di attenzione a tutto ciò che sta accadendo attorno a lui, a trecentosessanta gradi. Ma questo non basta: per scoprire qualcosa che sia veramente nuovo e fuori dagli schemi occorre mantenere una mente sufficientemente sganciata dalle tradizionali infrastrutture cognitive e culturali che normalmente rendono estremamente focalizzata su un particolare punto di arrivo – spesso predefinito – l’attività di ricerca.

Io credo che un ricercatore in medicina debba mantenere lo sguardo curioso e innocente di un bambino.

Max Planck disse che la scienza non progredisce perché gli scienziati cambiano idea, ma piuttosto perché gli scienziati attaccati a opinioni errate muoiono e vengono rimpiazzati. Otto Warburg ha usato le stesse parole per commentare il fatto che le sue idee – non mainstream sulla genesi del cancro – faticassero a essere accettate. Personalmente ritengo che le ricerche non mainstream nella scienza vadano incoraggiate e che abbiano avuto – e possano avere – un ruolo fondamentale nello sviluppo della medicina. In questa rubrica che terrò su Scienza e Conoscenza in ogni numero, parleremo sia delle scoperte che sono passate inosservate anche se ricche di prospettiva – una tra tutte il ruolo della vitamina C nella cura dei tumori – sia delle più recenti ricerche guidate da un approccio non mainstream, come ad esempio la scoperta che farmaci antiacidi possono avere un ruolo chiave nelle nuove strategie antitumorali e l’importanza dell’acqua e di antiossidanti nel mitigare l’invecchiamento. Vi aspetto in ogni numero per grandi novità!

Stefano Fais si è laureato in Medicina e Chirurgia nel 1981. Per circa 15 anni ha condiviso l’attività di medico con l’attività di ricerca e nel 1994 ha deciso di dedicarsi completamente ad essa. È attualmente Direttore del Reparto Farmaci Anti-Tumorali dell’Istituto Superiore di Sanità. È autore di più di 200 fra lavori scientifici, monografie e libri ed è nventore di 10 brevetti.

Continua la lettura su

Scienza e Conoscenza n. 69 - Luglio/Settembre 2019 - Rivista >> http://bit.ly/2LzQgg5
Nuove scienze, Medicina Integrata