mercoledì 26 giugno 2019

Bere poco o bere molto?



Bere poco o bere molto?

Alimentazione e Salute


Il consiglio di bere tanto può essere valido sempre e per tutti, oppure è meglio seguire lo stimolo della sete? Cosa ci dice la Medicina Tradizionale Cinese a questo proposito?

Redazione Scienza e Conoscenza - 26/06/2019

Tratto dal libro I Rimedi Naturali per Depurare e Curare il Fegato di Roberto Marrocchesi

Al giorno d’oggi si sente sempre dire che bisogna bere molto anche quando non si sente lo stimolo della sete e che la disidratazione è frequentissima e magari non ce ne accorgiamo e cose simili. Soprattutto l’attuale classe medica si è fatta alfiere di questa tesi e spesso ho incontrato persone che bevono perché hanno sentito dire che “fa bene” e agiscono quindi meccanicamente senza esercitare un loro giudizio e senza ascoltarsi veramente.

Ci sono casi opposti tra loro: la persona che ha molta sete e beve e la persona che non ha quasi mai sete e beve pochissimo.

Di questi due, direi che il primo ha sicuri problemi di salute, fa bene a bere, ma ciò non migliorerà molto la sua salute globale perché - secondo la Medicina Tradizionale Cinese (ndr) - si tratta di un vuoto dello yin, con presenza di calore, secchezza, infiammazioni varie a carico di rene, stomaco, fegato o anche cuore. In questi casi si tratta di soggetti che mangiano troppo sale, carne e salumi, troppi cibi cotti, consumano in eccesso fritti o alimenti grigliati, alimenti yang, pane e prodotti da forno, e che si muovono, parlano, passano molto tempo in piedi, portano tacchi alti che incurvano all’interno la fascia lombare della schiena (lordosi, che danneggia rene e vertebre), lavorano molto e dormono poco. Sono pletorici, in stato di pieno. Ad eccezione dei bambini che sono già yang di loro natura, questa condizione potrebbe sfociare in patologie anch’esse yang del cuore, del fegato o dello stomaco, o essere già un segno di pre-diabete o ipertensione, la sindrome metabolica insomma.

Per chi invece non beve perché non ha sete, la situazione pare un poco più equilibrata: ben difficilmente si danneggia l’organismo non bevendo se non si ha sete, perché il corpo sente e manifesta l’emergenza quando si trova in condizione di reale disidratazione. Allora, sarà vero che, come dicono in molti, bisogna bere anche sforzandosi, specie in età matura o anziana? Ritengo che ciò possa essere corretto solo in pochi casi.

Nella scuola macrobiotica di origine giapponese veniva detto in passato, intorno alla prima metà del Ventesimo secolo, di “bere il meno possibile” per evitare il rigonfiamento delle cellule e l’esaurimento del rene nella sua funzione di riassorbimento liquidi; l’indicazione veniva spiegata anche in funzione di combattere obesità, edemi o gonfiori, tutti collocati nel cosiddetto Inferno, il regno dello yin, secondo il suo proponente, l’originalissimo filosofo Georges Ohsawa.

Questa valutazione portò spesso a rilevare tra i primi seguaci la presenza di soggetti di corporatura magra, asciutta, austeri come sagrestani, dalla pelle rinsecchita e grinzosa, anche se con occhi accesi, eloquio brillante e pieni di energia. L’approccio “poco yin, tanto yang”, che la macrobiotica ha sostenuto fino agli anni ’80 circa, è stato però moderato più saggiamente in “beviamo quanto ci fa sentire bene, a ciascuno la sua quantità”, che è assai più accettabile. La sensazione di sete va ascoltata e seguita.

C’è un elemento sul quale invito a riflettere; oggi i nutrizionisti e i medici consigliano di bere molto e tale suggerimento potrebbe avere un senso in quanto è elevato il consumo di cibi ritenuti “normali” ma che sono in realtà contaminati da sostanze chimiche tossiche, cioè i cibi moderni industriali, salati e trattati, che sporcano il sangue, che si affiancano all’eccesso di alimenti animali, a loro volta pure denaturati e sempre più tossici, pieni di grassi non salubri, di ormoni e di quell’impronta di violenza che resta impressa in essi dall’istante della macellazione, foriera di una scarica adrenergica non certo salutare.

Scopri il libro dai cui è tratto questo articolo!

Depurare e Curare il Fegato con i Rimedi Naturali — Libro >> http://bit.ly/2Ll42ST
Roberto Marrocchesi

giovedì 20 giugno 2019

Cervello, processi quantistici e coscienza



Cervello, processi quantistici e coscienza non locale

Neuroscienze e Cervello


La coscienza è un epifenomeno del cervello o una trama intrinseca all'universo, governata da principi quantistici? Ecco cosa ne pensa il professor Stuart Hameroff

Carmen Di Muro - 19/06/2019

Etimologicamente il termine coscienza deriva dal latino consciens, participio presente di conscíre ovvero essere  consapevole. La determinazione storica di questa facoltà è genericamente correlata con quella di una sfera  dell’interiorità come campo specifico nel quale è possibile effettuare indagini che concernono l’ultima realtà dell’uomo e, assai spesso, ciò che in quest’ultima realtà si rivela: quell’intimo conoscimento che ciascuno ha dei suoi sentimenti ed azioni per il quale egli può fare esperienza di sé.

L'interpretazione standard della coscienza

Oggigiorno, il lavoro di ricerca sullo spettro della coscienza viene attuato partendo da ciò che è dimostrabile empiricamente e procede dal presupposto che la mente cosciente sia il risultato dell’attività biologica dei neuroni celebrali. La ragione di questo sta nel fatto che molti scienziati considerano la coscienza come un epifenomeno, ovvero come il prodotto manifesto macroscopico di numerosi processi elettrochimici che avvengono nel nostro cervello. Stando, quindi, al modello standard la coscienza emergerebbe dal complesso calcolo neuronale (la cui attitudine è vista in termini di impulsi neuronali e trasmissioni sinaptiche, equiparati a "bit" binari di calcolo digitale) che nasce durante l'evoluzione biologica come adattamento dei sistemi viventi, estrinseco alla composizione  dell'universo.

Eppure la coscienza non è semplicemente il risultato di reazioni molecolari e di processi chimici, ma è il  nucleo essenziale della natura, è sua essenza. La coscienza esiste al di fuori degli usuali vincoli dello spazio/tempo e sfugge alla tradizionale comprensione delle leggi della fisica classica. Essa è energia non locale e il suo campo d’azione non va concepito entro i confini del corpo fisico, ma al contrario, in modo esteso all’infinito.

La coscienza come trama intrinseca dell'universo

Ma in che modo il cervello produce la ricchezza dell'esperienza consapevole e di qualsiasi atto soggettivo? Le tradizioni spirituali e contemplative, e alcuni eminenti ricercatori moderni, considerano la coscienza intrinseca, "tessuta nella trama dell'universo".

Tale principio è ciò che anima le avveniristiche concettualizzazioni di “neurodinamica quantistica” di uno scienziato di fama mondiale, lo studioso americano Stuart Hameroff, il quale ha sviluppato negli ultimi 20 anni in sinergia con fisico britannico Sir Roger Penrose, una teoria rivoluzionaria chiamata “orchestrated objective reduction” (Orch OR).

Essa suggerisce che la coscienza nasca, in realtà, dalle vibrazioni quantistiche che avvengono nei polimeri proteici chiamati microtubuli all'interno dei neuroni del cervello, vibrazioni che controllano, "collassando" e risuonando su scala, i processi cerebrali, generando atti di coscienza, attraverso la connessione alle increspature di "ordine più profondo" nella geometria dello spazio-tempo.

La coscienza è più simile alla musica che al calcolo. E il cervello sembra più un'orchestra, un sistema di risonanza vibrazionale multi-scalare, che un computer. I modelli di informazione del cervello si ripetono su scale spazio-temporali in gerarchie simili ai frattali di reti neuronali, con risonanze e battiti di interferenza.

ll prof. Stuart Hameroff, oltre ad aver condotto per anni ricerche con il Premio Nobel per la Fisica Prof R. Penrose, è professore e direttore di anestesia e psicologia, nel Centro di studi sulla Coscienza dell'Università di Banner in Arizona, impegnato nello studio su come gli anestetici agiscono nei microtubuli per cancellare la coscienza, nonché di come l'ecografia transcranica potrebbe essere utilizzata in modo non invasivo per risuonare con i microtubuli cerebrali e trattare disturbi mentali, cognitivi e neurologici.

La Mente e la Medicina Quantistica

È possibile che la preghiera e l’intenzione di guarigione di un gruppo di persone che medita su dei pazienti possa avere degli effetti benefici sullo stato di salute di questi ultimi?

La mente può realmente influenzare la materia e quindi anche il corpo e la salute?
In che modo la meditazione può incidere sui parametri biologici e favorire i processi di guarigione? Quanto è importante per la riuscita di una terapia che il paziente si senta accolto empaticamente dal personale sanitario e partecipi con consapevolezza al percorso di cura?

Gioacchino Pagliaro, psicologo e psicoterapeuta, è tra i pionieri della medicina mente-corpo e della medicina quantistica in Italia e da anni si pone queste domande con spirito critico e privo di pregiudizi. Pagliaro ha il merito di aver portato la meditazione negli ospedali, per il personale e per i pazienti oncologici, e lavora da ormai trent’anni per l’umanizzazione delle cure, la promozione della salute e una medicina più attenta alla persona e non solo alla patologia. Autore per Scienza e Conoscenza da oltre quattro anni, fa parte del Comitato Scientifico della rivista, che arricchisce di numero in numero con la sua esperienza e i suoi preziosi consigli. Con piacere vi presentiamo questo libro che raccoglie i suoi interventi più significatici apparsi sino ad ora sulle pagine della rivista.

Indice

CAPITOLO 1 - La fisica quantistica nella vita quotidiana

CAPITOLO 2 - Medicina vibrazionale e campo energetico

CAPITOLO 3 - Guarigione a distanza e Fisica Quantistica

CAPITOLO 4 - Mente non-locale e guarigione a distanza

CAPITOLO 5 - La Cura Quantica della Consapevolezza

CAPITOLO 6 - La meditazione aiuta a guarire

CAPITOLO 7 - Cancro e Medicina Quantistica

eBook - La Mente e la Medicina Quantistica >> http://bit.ly/2XnZRMD
L’incontro tra le Teorie Quantistiche, la Mente e la Spiritualità
Gioacchino Pagliaro

martedì 18 giugno 2019

Cos'e' una teoria scientifica



Che cos'e' una teoria scientifica?

Scienza e Fisica Quantistica


Dal riduzionismo, all’epistemologia biiettiva per superare l’empasse del Modello Standard

Davide Fiscaletti - 17/06/2019

Come evidenzia il premio Nobel 1998 Robert Laughlin nel suo brillante libro Un universo diverso, la natura è regolata sia da principi essenziali, primari (che riguardano i costituenti elementari delle cose) sia da principi organizzativi (che riguardano strutture stabili e complesse composte da tali elementi). Nella storia della scienza esiste da sempre un conflitto tra due concezioni, vale a dire se siano le leggi microscopiche a determinare l’organizzazione, l’ordine che osserviamo nelle cose che ci circondano, oppure se invece vale il viceversa.

Da un punto di vista generale, possiamo dire che per gran parte dell’evoluzione del pensiero scientifico moderno ha prevalso un approccio riduzionistico, secondo cui i vari fenomeni diventerebbero via via più nitidi allorché vengono frazionati in parti e componenti sempre più piccole.

È fuori di dubbio il fatto che il riduzionismo abbia portato notevoli successi, in particolare nella fisica (pensiamo, per esempio, agli sviluppi della fisica atomica, della fisica nucleare, della fisica delle particelle elementari).

Tuttavia, è lecito chiedersi: esiste veramente un livello fondamentale dal quale si può spiegare tutto, usando il formalismo matematico a partire dalle interazioni fondamentali tra i costituenti elementari?

Il reame dei sistemi complessi

Va sottolineato che esistono tutta una serie di sistemi fisici – come i superfluidi e i superconduttori – i quali evidenziano chiaramente come le simmetrie che caratterizzano i costituenti elementari si possano rompere e la materia possa acquisire collettivamente e spontaneamente delle nuove proprietà che non sono presenti nelle sue regole fondamentali. In questi fenomeni il risultato è maggiore della somma degli addendi: nei superconduttori, per esempio, gli elettroni del materiale tendono a muoversi tutti assieme, sotto forma di coppie elettrone-elettrone, chiamate coppie di Cooper, come se fossero un’unica macroentità.

I sistemi in cui si verificano questi fatti costituiscono quella che viene anche chiamata la “terra di mezzo”, o reame, dei sistemi complessi la quale comprende molteplici scale di grandezza. In questo dominio rientrano in pratica tutti i fenomeni che stanno tra la fisica delle particelle e la cosmologia, e quindi per esempio anche gli organismi viventi, i sistemi cognitivi, i sistemi sociali.

Si tratta di un territorio caratterizzato dall’intreccio dei livelli e dall’emergenza di nuove forme organizzative, dove a partire dalle proprietà dei costituenti può essere impossibile dedurre i comportamenti globali del sistema. Nel suo recente illuminante libro Complessità. Un’introduzione semplice, Ignazio Licata sostiene che la terra di mezzo è il posto dove succedono le cose più interessanti per noi, in riferimento alla capacità di produrre conoscenza.

In questi fenomeni si osserva una pluralità di livelli e di comportamenti e questo necessita di ricorrere a più modelli, ciascuno dei quali ci permetterà di cogliere solo un aspetto parziale delle cose, di mettere a fuoco quanto emerge dagli obiettivi che ci si pone, mentre cambiando obiettivi cambiano i modelli.

I limiti riduzionisti del Modello Standard della fisica delle particelle

La nuova fisica sviluppatasi nel XX secolo, e segnatamente l’esplorazione del mondo atomico e subatomico, ha demolito le basi della visione del mondo, mostrando come in ambito quantistico le particelle subatomiche non hanno significato come entità isolate, ma possono essere comprese solo come interconnessioni tra vari processi di osservazione e misurazione.

Nonostante ciò, il Modello Standard della fisica delle particelle – la teoria fondamentale che, usando il linguaggio della teoria quantistica dei campi, descrive le proprietà delle particelle elementari della fisica e specifica il modo in cui interagiscono – sembra essere affetta da svariati limiti legati alla sua modalità “riduzionista” di approcciarsi alla realtà.

Il Modello Standard non sembra aver imparato la lezione riguardante l’esistenza e le proprietà del vuoto quantistico, quell’entità dinamica capace di esibire delle fluttuazioni di energia (descritte in termini di particelle virtuali) non direttamente osservabili, ma significative nello studio dei comportamenti dei sistemi fisici in quanto in grado di produrre su di essi effetti reali e osservabili...

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lunedì 17 giugno 2019

Che cosa sono i fotoni?




Che cosa sono i fotoni?

Scienza e Fisica Quantistica


Cosa sono i fotoni? Quali le caratteristiche particolari di queste interessanti particelle? Come si studiano?

Antonella Ravizza - 15/06/2019

La luce da sempre ha attratto la curiosità dell’uomo: di che cosa è fatta? Perché è così brillante? Il segreto sta nel fotone, una piccolissima particella di luce! Cerchiamo di scoprire insieme le principali caratteristiche di questa interessante particella elementare.
Quando aveva 16 anni, Albert Einstein sognò davanti ad uno specchio di cavalcare un raggio di luce. Il giovane sognatore intuì che non sarebbe riuscito a vedersi riflesso nello specchio, perché, stando sopra alla luce, si sarebbe mosso esattamente alla sua velocità; per potersi specchiare avrebbe dovuto superare la velocità della luce stessa. Qualche tempo dopo lo stesso Einstein, studente al Politecnico di Zurigo, si rese conto che la velocità della luce è una costante.

Cosa sono i fotoni?

Il termine fotone deriva dal greco e fu introdotto per la prima volta da Gilbert Lewis nel 1926. Il fotone si indica con la lettera greca γ ed è associato ad ogni radiazione elettromagnetica. Pur essendo un fenomeno ondulatorio, la radiazione elettromagnetica ha anche una natura quantizzata che le consente di essere descritta come un flusso di fotoni.

Il fotone è una particella che ha vita infinita: può essere creato e distrutto dall’interazione con altre particelle, ma non può decadere spontaneamente. Pur non avendo massa, è influenzato dalla gravità e possiede energia; nel vuoto si muove alla velocità della luce (c=300000 km/s circa), mentre nella materia si comporta in modo diverso e la sua velocità può scendere al di sotto di c. In effetti, quando interagisce con altre particelle acquisisce massa e non si muove più alla velocità della luce. Bohr ipotizzò che un atomo può emettere un’ onda elettromagnetica (o radiazione) solo quando un elettrone si trasferisce da un’orbita con energia maggiore (Ei) a un’ orbita con energia minore (Ef).

L’energia dell’onda elettromagnetica emessa è: E= Ei-Ef . Dal momento che sia Ei sia Ef possono assumere solo valori ben definiti, l’energia della radiazione elettromagnetica emessa dall’atomo non può avere qualsiasi valore, ma solo quantità discrete, dette quanti di energia: i fotoni. Quindi la materia è in grado di emettere o assorbire energia raggiante solo sotto forma di pacchetti energetici. Einstein calcolò l’energia associata ad ogni fotone e vide che era proporzionale alla frequenza dell’onda elettromagnetica.

Onda o particella? La doppia natura del fotone

Prima delle scoperte della prima metà del XX secolo, onde e particelle sembravano concetti opposti: un'onda riempie una regione di spazio, mentre un elettrone o uno ione hanno una locazione ben definita. Su scala atomica, in effetti, la distinzione diventa confusa: le onde hanno alcune proprietà delle particelle e viceversa.

Effettivamente il fotone mostra una duplice natura, sia corpuscolare, sia ondulatoria: a seconda della strumentazione usata per rilevarlo, si comporta come una particella, o si comporta come un’onda. L’esperimento dell’effetto fotoelettrico (quel fenomeno per cui si ha emissione di elettroni da parte di un corpo colpito da onde elettromagnetiche) suggerisce la natura corpuscolare della luce, mentre i fenomeni di diffrazione e di interferenza suggeriscono una natura ondulatoria.

Per valutare come la luce passi attraverso un telescopio, si calcola il suo moto come se la luce fosse un’onda. Però, quando la stessa onda cede la sua energia a un singolo atomo, risulta che essa si comporta come una particella. Indipendentemente dal fatto che un raggio di luce sia più brillante o debole, la sua energia viene trasmessa in quantità delle dimensioni di un atomo (il fotone) la cui energia dipende soltanto dalla lunghezza d'onda. Le osservazioni hanno mostrato che tale “dualità” onda-particella esiste anche in direzione opposta.

Un elettrone dovrebbe avere, in ogni istante, posizione e velocità ben definite; ma la fisica quantistica ci dice che una precisione in osservazioni di questo tipo non può essere ottenuta, e ci suggerisce che il moto può essere descritto come un'onda. Il dualismo onda-particella era considerato paradosso fino all’introduzione completa della meccanica quantistica, che descrisse in maniera unificata i due aspetti. La radiazione si comporta come un’onda quando si propaga nello spazio, mentre si comporta come particella quando interagisce con la materia.

Si introducono quindi nuove quantità e notazioni: un'onda elettromagnetica di lunghezza d'onda λ percorre una distanza di c metri ogni secondo. La sua frequenza ν, cioè il numero di oscillazioni in su e giù ogni secondo, si può ottenere dividendo c per la lunghezza d'onda: ν = c/ λ . Una legge fondamentale della fisica quantistica dice che l'energia E in joule di un fotone di frequenza ν è: E = hν, dove h = 6,624 10-34joule-sec è la "costante di Planck".

Luce solida e computer quantistici

Oggi si sa molto di più: i ricercatori dell’Università di Princeton sono riusciti a rallentare i fotoni e a creare una stranissima e nuova forma di luce: la luce solida! Hanno cioè creato un cristallo fatto non di atomi ma di fotoni, cioè di particelle che costituiscono la luce (fotoni congelati).

Hanno ottenuto un agglomerato di 100 miliardi di atomi di materiale superconduttore come fosse un atomo artificiale; nelle sue vicinanze hanno fatto passare un filo superconduttore contenente fotoni. La luce ha potuto, così, “solidificarsi”, cambiando natura con un processo che è stato paragonato a una transizione di fase, cioè simile a quando un gas si condensa per diventare liquido o solido.

Lo scopo finale dei ricercatori è la realizzazione di un computer quantistico capace di effettuare calcoli molto più complessi di quelli che risolvono i computer tradizionali. Chissà, magari tra qualche anno, un altro giovane sognatore potrà effettivamente cavalcare un cristallo di luce solida e rendere realtà il sogno del piccolo “grande” Einstein!

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venerdì 14 giugno 2019

Che cos'e' la Microimmunoterapia



Che cos'e' la Microimmunoterapia?

Curarsi con l'Omeopatia

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La Microimmunoterapia è una terapia immunitaria simil-omeopatica, basata sull’utilizzo di sostanze immunoregolatrici scoperte negli ultimi decenni (interferoni, interleuchine, citochine) in dosaggi analoghi a quelli omeopatici ed è utile per rafforzare il sistema immunitario

Fiamma Ferraro - 13/06/2019

La microimmunoterapia (MIT) ha come obiettivo l’ottimizzazione, con rimedi in dosi microscopiche, del nostro sistema immunitario, e di conseguenza la cura dei problemi di salute – acuti e cronici, fisici e psichici – causati da un suo funzionamento difettoso e disregolato.

La Microimmunoterapia è una terapia immunitaria simil-omeopatica, basata sull’utilizzo di sostanze immunoregolatrici scoperte negli ultimi decenni (interferoni, interleuchine, citochine) in dosaggi analoghi a quelli omeopatici (anche se non in diluizioni così elevate come quelle proprie di molti rimedi omeopatici). Queste sostanze immunoregolatrici sono naturalmente presenti nel corpo umano e svolgono i loro effetti in quantità infinitesimali. Basterebbe questo fatto per dimostrare l’infondatezza delle argomentazioni di coloro che criticano l’omeopatia, sostenendo che non è possibile che delle sostanze introdotte nel corpo in quantità pressoché inesistente producano degli effetti. Questo infatti è proprio quanto avviene naturalmente nel corpo umano, in cui alcuni immunoregolatori svolgono il loro compito pur essendo presenti in quantità infinitesimali.

La Microimmunoterapia non fa altro che copiare quanto avviene normalmente in presenza di un sistema immunitario ben funzionante, regolando quei casi in cui il sistema immunitario presenta delle disfunzioni, nel senso di un’attività troppo acuta o troppo debole. 

MIT e omeopatia classica: quali differenze?

Come già sottolineato la MIT è una terapia diretta a ottimizzare il sistema immunitario attenuandolo quando è iperattivo, provoca allergie e problemi di autoimmunità, e stimolandolo/ rinforzandolo quando invece non è abbastanza attivo e non reagisce sufficientemente contro virus, batteri, cellule anomale e altre sostanze nocive. Per ottenere questo effetto la MIT ricorre alle moderne sostanze immunoregolatrici utilizzate anche nell’immunoterapia convenzionale, prescrivendole tuttavia in dosaggi “microscopici”, ottenuti tramite i processi di diluizione e dinamizzazione propri dell’omeopatia, ma non uguali a quelli dell’omeopatia “classica” di cui la MIT è considerata come una diversa, moderna evoluzione.

Mentre infatti l’omeopatia Hahnemanniana è basata sul principio “similia similibus curantur”, il principio proprio della MIT è quello di similitudine biologica: l’organo sano, somministrato in diluizioni diverse a seconda dei casi, cura l’analogo organo malato.

Un’altra differenza tra la medicina omeopatica classica e la MIT è che per arrivare a scoprire quale sia il preparato più adatto nei vari casi individuali, l’omeopatia procede soprattutto tramite l’osservazione e interrogazione del paziente, mentre la MIT utilizza soprattutto indagini di laboratorio e complessi test diagnostici propri anche della medicina “convenzionale”, tra cui la tipizzazione linfocitaria e lo studio sierologico dei titoli anticorpali, al fine di verificare l’adeguatezza del sistema immunitario, un eventuale stato di riattivazione virale e altro. Quanto all’entità della diluizione dei rimedi da somministrare, la MIT applica il principio Arndt-Schultz (approfondito dagli scienziati Rudolf Arndt ed Hugo Schultz) in base al quale ogni stimolo esercitato sulle cellule viventi da farmaci, elettromagnetismo o altro, provoca un’attività inversamente proporzionale all’intensità dello stimolo: stimoli deboli rinforzano mentre stimoli forti indeboliscono.

Pertanto anche i rimedi della MIT, quando si vuole stimolare o rinforzare l’attività di un sistema immunitario che non sta esercitando un’azione abbastanza energica per difenderci da virus, batteri e altro, vengono somministrati in diluizioni che contengono la sostanza terapeutica in quantità infinitesimale, mentre quando si vuole attenuare un’azione troppo energica del sistema immunitario (attività che provoca allergie e malattie autoimmuni) si impiegano diluizioni che contengono il rimedio in quantità più consistente.

In sostanza è necessario, in ogni singolo caso, accertare quali siano i prodotti contenenti le diluizioni più adatte per modulare in modo ottimale l’attività del sistema immunitario.

I rimedi della MIT vengono somministrati in sequenze precise, in modalità sub-linguale, (tramite la mucosa del cavo orale le sostanze vengono efficacemente assorbite dal sistema linfatico). La MIT è compatibile con la maggior parte delle altre terapie; non è compatibile con interferoni o trattamenti immunosoppressivi che prevedano l’uso di cortisonici, ciclosporina o azatioprina.

Di norma, quando si inizia una MIT occorre rivolgersi a un medico esperto in questa materia e portare a termine l’assunzione dei rimedi per i tempi indicati. È inoltre bene proseguire, finché necessario, anche le terapie convenzionali eventualmente in corso...

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mercoledì 12 giugno 2019

Guarire dal dolore al ginocchio: nuova terapia



Guarire dal dolore al ginocchio: nuova terapia

Medicina Non Convenzionale


Il dottor Corbucci propone un nuovo metodo di cura per i problemi al ginocchio che permette un totale recupero della funzionalità evitando l'intervento chirurgico

Massimo Corbucci - 11/06/2019

Nessuna parte del corpo sarebbe “dolorante”, se non ci fosse un “sistema nervoso” a  “trasmettere” un danno tessutale, una lesione, una pressione, una variazione termica, sotto forma di un “segnale”, il dolore. 
La scoperta importante è che proprio nel sistema nervoso che si nasconde il segreto della cura di alcune patologie fra cui il dolore cronico al ginocchio.

Supponiamo che il ginocchio di un paziente si sia bloccato, facendogli sentire un tremendo dolore. Il gonfiore, sovrapposto ad un dolore di fondo molto fastidioso, suggerisce un problema all’interno del ginocchio, che generalmente si pensa di diagnosticare con una artroscopia, una RMN, o altri metodi di diagnosi per immagine.

Di solito, per fronteggiare una situazione del genere, se si ricorre all’approccio medico tradizionale, la terapia sarà rappresentata dalla somministrazione di farmaci antiflogistici, antidolorifici ed eutrofici sulla formazione delle cartilagini strutturali del ginocchio. Il risultato è ovviamente palliativo.

La terapia chirurgica è rappresentata da vari step, dove si parte dall’infiltrazione semplice, per continuare con il tentativo di pulizia attraverso una artroscopia. Possono seguire vari interventi chirurgici a ginocchio aperto, fino ad arrivare alla sostituzione dell’intera articolazione, con una protesi. 
Ammesso e non concesso che dopo la protesi i problemi per cui il soggetto ha deciso di sottoporsi ad un intervento così demolitivo e invasivo, in parte si risolvano (cosa che non sempre avviene), resta il fatto che l’impianto richiede frequenti sostituzioni nel tempo, rendendo controindicata una tale procedura.

Ora esiste un’altra possibilità!

Grazie al nuovo metodo ideato dal Dott. Corbucci è possibile cambiare il destino di tutte le persone che, ad una certa età non necessariamente senile (talvolta giovanile), senza alcuna causa traumatica, vedono insorgere problemi al ginocchio e che impropriamente curati, sono vittime di pesantissime complicazioni, di gran lunga peggiori del problema iniziale.  
Per capire meglio il presupposto su cui poggia il nuovo metodo di  “MEDICINA CANALARE” ® del dott. Corbucci, possiamo immaginare, per esempio, che dal menisco del ginocchio parte un tubicino che sale verso la coscia, entra nella regione pelvica e poi si insinua verso la colonna vertebrale dove, a livello delle vertebre T12-L1 si collega con le vie spinali e da queste risale fino a sbucare nel piano cutaneo dorsale.
Ora che abbiamo conosciuto l’esistenza di veri e propri canali fisici che, dal piano cutaneo dorsale (livello spinale T12-L1) COMUNICANO con le parti articolari del ginocchio (menisco, legamenti e tessuti dello spazio articolare, compresa la vascolarizzazione e le vie linfatiche) come utilizzare questa preziosa scoperta a livello clinico.

Diagnosi e cura passo per passo

Serve una DIAGNOSI iniziale che, intanto, ci consente di conoscere:

1) Quanto dolore affligge il soggetto affetto da gonartrosi (in una scala da 1 a 10)
2) Se, oltre al dolore, c’è anche un deficit motorio dell’arto.
3) Se, oltre al dolore e al deficit motorio, c’è anche un deficit propriocettivo che sostiene un disallineamento (in genere atteggiamento antalgico) della gamba o un valgismo o, al contrario, un varismo, che incidono sulla postura e sul tipo di deambulazione.

Dopo aver avuto la certezza oggettiva che il problema apparentemente a carico del ginocchio e delle sue strutture interne è dovuto a un vero e proprio deficit di conduzione di segnali neuro-fisiologici a carico delle vie nervose che presiedono all'innervazione di quella parte del ginocchio e di quelle strutture interne, possiamo capire quanto improprio e inutile sarebbe sia l’approccio classico medico, sia  l’intervento chirurgico.

Terapia classica del dolore al ginocchio e intervento chirurgico

L’approccio medico standard, vale a dire la terapia medica che prevede la somministrazione “OS” o parenterale di antiinfiammatori (FANS o STEROIDI) o di antidolorifici (OPPIACEI), sarebbe solo un palliativo momentaneo, che ovviamente non può risolvere il problema insorto, destinato a perdurare nel tempo e ad aggravarsi.
L’intervento chirurgico al ginocchio, sia che preveda la programmazione di una serie di infiltrazioni di farmaci eutrofici sui tessuti (acido ialuronico,  condroitinsolfato, cortisone…) o antidolorifici (lidocaina cloridrato…), sia che arrivi al caso estremo dell’intervento per l’impianto di una protesi articolare, non può  non suscitare considerazioni di carattere clinico-pratico.
La più importante è quella che valuta il rapporto rischio-beneficio, e la  considerazione circa l’intervallo di tempo lungo, richiesto dopo l’intervento stesso,  per vedere se c’è stato o meno qualche risultato. Infatti è richiesto un lungo periodo riabilitativo post-chirurgico, che precede il primo tentativo di far deambulare liberamente il soggetto operato di artro-protesi.
Purtroppo, in molti casi, nemmeno l’impianto della protesi al posto del ginocchio, che sembrava la causa, determina la remissione del dolore né permette di liberare l’arto dal blocco funzionale.

Allora qual è il percorso giusto da seguire?

Il percorso giusto da seguire è capire e neutralizzare la causa del dolore al ginocchio. Nella totalità dei casi analizzati di dolore al ginocchio, alla base del problema c’è una “radicolopatia” discale T12 – L1 in cui al problema del ginocchio si accompagna una sciatalgia e una compromissione funzionale e antalgica dell’arto inferiore, correlata con sovrapposte discopatie L5 – S1, L4 – L5. La risoluzione di queste discopatie consente l'istantaneo sblocco del ginocchio, la scomparsa del gonfiore e, di conseguenza, del dolore, con la possibilità di una guarigione totale e definitiva.

Pertanto la “ripolarizzazione” della via neurofisiologica (cioè la corretta ripresa della differenza di potenziale di membrana sui neuroni che hanno sofferto dello schiacciamento discale o di una semplice compressione) equivale alla scomparsa del dolore riflesso sul ginocchio.
La ripresa dei segnali neuro-fisiologici si traduce in una immediata cessazione dei processi degenerativi e nel ripristino di un ottimale trofismo.
Avvenuta questa ripresa neuro-fisiologica iniziale, l’impianto (usiamo questo termine preso in prestito dalla MESOTERAPIA) di pochissime molecole di sostanze che partecipano al metabolismo tissutale delle strutture cartilaginee, facenti parte delle strutture legamentose e di sostegno dell’articolazione, hanno un effetto eutrofico sorprendente e di gran lunga più efficace di una infiltrazione locale.

In 5 sedute il problema al ginocchio scompare

Con la prima seduta si ottiene l’immediata scomparsa dei sintomi dolorosi, il ginocchio si sgonfia immediatamente e riprende la sua forma naturale e la sua funzione articolare, antecedente all’insorgere del problema.
Con una seconda seduta si possono individuare le “vie neurofisiologiche” che nemmeno era possibile rilevare subito, in quanto soverchiate da quelle maggiormente implicate nella disfunzione e nel dolore di importanza più notevole. Queste vie di minore rilevanza, tuttavia, sostengono limitazioni funzionali più lievi a carico dell’arto inferiore, persino non inerenti il ginocchio, bensì altre parti anatomiche.

Queste potrebbero essere la tibia e le dita del piede che, comunque, contribuiscono sensibilmente a disturbare una perfetta deambulazione o quantomeno a far percepire un non perfetto atteggiamento degli arti, fino ad un disallineamento rispetto all’arto contro laterale o ad una linea di perfetta stazione eretta.
In una terza seduta, una volta accertato che la causa del problema sia stata rimossa e che i disturbi funzionali sono stati eliminati totalmente, si può cominciare un lavoro sull’eutrofismo dei tessuti, che porterà alla perfetta guarigione del ginocchio, definitiva e duratura nel tempo.
Quasi sempre il ginocchio rimesso in funzione con questo tipo di procedimento, risulta poi essere in condizioni migliori del  ginocchio contro-laterale che,  oggettivamente, se all’inizio del problema veniva portato dal paziente come termine di paragone per indicare una funzionalità perfetta, infine sorprende il paziente stesso che lo percepirà come ginocchio meno funzionante del ginocchio guarito.

Questo tipo di cura è dunque così efficace da permettere di guarire un ginocchio in modo così perfetto che viene percepito, e appare oggettivamente, in condizioni di gran lunga migliori, più sano dell'altro.
Al massimo in 5 sedute, distribuite nell’arco di poco più di un mese, il caso di gonartrosi più grave che si possa inquadrare, certamente candidato all’impianto di protesi, viene guarito perfettamente.

Ecco alcune testimonianze arrivate in redazione:

"Volevo ringraziare pubblicamente il dott. Massimo Corbucci , mi ha ridato la vita, grazie infinite. Dopo lunghi anni di atroci dolori ossei alla colonna vertebrale , si sono aggiunti gravi problemi alle ginocchia. Ero praticamente ridotta con le stampelle in casa. Messuna cura faceva effetto, notti insonni e vita distrutta. La disperazione, mi ha portato a cercare qualcosa di alternativo; non potevo più intossicarmi con 4 scatole di Feldene al mese, senza curare la causa (che reputavo alla colonna vertebrale) ed essere derisa dagli ortopedici che, pensando fossi solo molto esaurita, mi prescrivevano psicofarmaci (ho ancora le ricette). L'unico e il solo e' stato il dott. Massimo Corbucci che mi ha creduto e confermato ciò che io pensavo, cioè che il problema partiva dalla colonna vertebrale.  A lui devo la mia nuova vita da allora non ho più preso nessun farmaco e più passavano i mesi meglio stavo, ho ritrovato il riposo, la mia colonna si e' raddrizzata, il ginocchio si è sgonfiato i dolori atroci  sono scomparsi. Che dire? Gli angeli ci sono basta saperli trovare. Grazie dott. Corbucci Massimo." - Lucia Micottis

"Mi chiamo Renata ed ho 49 anni e sono felice di portare la mia testimonianza sull'operato del dottor Massimo CORBUCCI. Nel periodo di tempo all'incirca di due anni durante i quali ho manifestato diverse sintomatologie, all'inizio di sopportabile sofferenza divenuta poi ingestibile stravolgendo la mia vita, mi sono rivolta al dottor. Corbucci presentandogli le seguenti diagnosi: ernia lombare fuoriuscita e risalita, marcata sofferenza del nervo ulnare con formicolio persistente alle dita anulare e mignolo della mano sinistra, artrosi con calcificazione e fuoriuscita liquido dell'articolazione della spalla destra, cervicalgia acuta e cronica della terza e quarta vertebra cervicale, sofferenza al polso sinistro per tunnel carpale, emicranie invalidati per giorni associate ad intolleranze alimentari. Le applicazione si sono dimostrate da subito efficaci, con miglioramenti esponenziali e risolutivi nell'arco di questi 2 mesi come preventivatomi. Sarò eternamente grata al dottor Corbucci per avermi ridato la vita. Consiglio vivamente di fermarsi in loco per valutare in condivisione con il dottor Corbucci i tempi di risposta fisiologica ai trattamenti e le quantità di sedute. Ciò è fondamentale per la risoluzione dei casi essendo tutti unici. Grazie da parte mia e del mio compagno che ancora vive con il ricordo e l'onore di aver conosciuto un grandissimo scienziato che si rivolge a tutti in maniera disponibile e semplice con le parole di un amico".


lunedì 10 giugno 2019

Grassi: fanno bene o fanno male?



Grassi: fanno bene o fanno male?

Alimentazione e Salute


Pensi che i grassi facciano male e debbano essere eliminati dall'alimentazione? Nei sei proprio sicuro? Oggi la scienza conferma che i grassi non vanno demonizzati: basta saper scegliere quali consumare, in che quantità e come

Fiamma Ferraro - 09/06/2019

I grassi si dividono in saturi, monoinsaturi e polinsaturi: sai quali differeze ci sono tra queste categorie e a quale classe appartengono i grassi presenti sulla nostra tavola?

I grassi saturi

I grassi animali, a eccezione di quelli di pesce, sono tutti prevalentemente saturi, ma vi sono anche alcuni grassi saturi vegetali, come ad esempio l’olio di cocco.
Un sondaggio recente condotto dal Medical Research Council ha dimostrato che gli uomini che mangiavano burro correvano la metà del rischio di sviluppare malattie cardiocircolatorie rispetto a quelli che mangiavano margarina.

Risultati analoghi sono stati ottenuti in numerosi altri studi. Mi limito qui a citare il più recente e importante, una meta-analisi condotta presso l’Università di Cambridge, in cui sono stati analizzati 76 studi che hanno coinvolto mezzo milione di persone, arrivando alla conclusione che coloro che assumono elevate quantità di grassi saturi non soffrono di problemi cardiaci in misura superiore a coloro che evitano questi grassi.

Non molti decenni fa si raccomandava di sostituire il burro con la margarina, composta da oli vegetali idrogenati, e cioè trattati con una speciale procedura diretta a renderli solidi e più a lungo conservabili senza pericolo di diventare rancidi. Si è poi ammesso che questi consigli erano sbagliati, poiché i grassi idrogenati erano dei prodotti del tutto “innaturali”, simili alla plastica, e hanno provocato molti danni alla salute. Anche oggi molte persone quando leggono sulle etichette la dizione “grassi vegetali” si sentono tranquillizzate: occorre invece perlomeno controllare che vi sia la dizione “grassi non idrogenati”.

Le funzioni dei grassi saturi nel nostro corpo

Costituiscono almeno il 50% delle membrane cellulari (e infatti, guarda caso, nei grassi del latte materno sono presenti per il 48 % circa).
Svolgono un ruolo vitale nella salute delle nostre ossa. Affinché il calcio possa essere bene integrato nelle ossa, il 50% circa dei grassi alimentari dovrebbe essere saturo.
Sono necessari per il corretto utilizzo degli acidi grassi polinsaturi-essenziali. Gli acidi grassi omega 3 sono meglio conservati nei tessuti quando la dieta è ricca di grassi saturi.
L'acido palmitico è il grasso (saturo) che si trova intorno al muscolo cardiaco e lo protegge.

Come accennato, non tutti i grassi saturi sono animali. Ve ne sono anche di origine vegetale, che fino a poco tempo fa erano anch’essi sconsigliati, come quello da noce di cocco, di cui stanno emergendo sempre di più le proprietà benefiche (per il buon funzionamento della tiroide e, grazie all’acido laurico in esso contenuto, per le sue proprietà antibatteriche e antivirali). I grassi animali, il colesterolo e anche i grassi vegetali saturi, a lungo demonizzati, iniziano ora a essere in parte rivalutati, ma la rivalutazione procede troppo lentamente, e nelle linee guida “ufficiali”, nei consigli dietetici popolari e nell’opinione pubblica sono ancora visti come dannosi e da evitare.

I grassi monoinsaturi

Quanto ai grassi monoinsaturi (che peraltro contengono anch’essi una parte di grassi saturi) è quasi inutile soffermarsi sull’argomento poiché sono ben note e provate le proprietà benefiche dell’olio d’oliva, al quale sono attribuiti molti degli effetti positivi della dieta mediterranea: l’acido oleico dal quale è in gran parte formato è anch’esso contenuto in notevoli quantità nel latte materno. Altri oli con buone quantità di acido oleico sono quelli di mandorle, noci pecan, anacardi, arachidi e avocado.

I grassi polinsaturi

Quanto ai grassi polinsaturi: i due acidi grassi polinsaturi che si trovano con maggiore frequenza nei nostri alimenti sono l'acido linoleico (omega 6) e l'acido linolenico (omega 3). Il nostro corpo non può produrre questi acidi grassi, pertanto detti “essenziali”, e quindi il nostro fabbisogno deve essere ricoperto tramite l'assunzione di alimenti che li contengono.

Si tratta di oli altamente reattivi, che irrancidiscono facilmente; non dovrebbero pertanto essere esposti alla luce e all’aria e soprattutto non dovrebbero essere riscaldati: infatti i grassi saturi e monoinsaturi (come quelli di cocco e d’oliva) che resistono meglio al calore, provengono da climi caldi. I grassi polinsaturi vegetali omega 6 sono estratti dalla soia, dal mais, dal cartamo, dal girasole, dalla colza e dal altri semi, mentre gli omega 3 si trovano soprattutto nel pesce.

Ovviamente anche i grassi polinsaturi essenziali (crudi e freschi) sono importanti e ne abbiamo assolutamente bisogno (costituiscono dall’8% al 12% del totale dei lipidi contenuti nel latte materno) ma le consuete raccomandazioni alimentari che li hanno additati e continuano ad additarli come gli unici grassi sani, hanno portato a un loro consumo eccessivo. Meglio sarebbe, pur con gli adattamenti del caso, attenersi anche qui alle proporzioni che si trovano nel latte materno, e assumerli in proporzioni non superiori a una media del 10% del totale dei grassi assunti quotidianamente.

Omega 3 e 6: quanti ne consumiamo?

I problemi associati a un eccesso di acidi grassi polinsaturi sono aggravati dal fatto che la maggior parte degli oli vegetali polinsaturi commerciali sono sotto forma di acido linoleico (omega 6) con pochissimo acido linolenico (omega 3). Numerose recenti ricerche hanno rivelato che troppi omega 6 nella dieta creano uno squilibrio che può interferire con la produzione di prostaglandine, il che può provocare una tendenza a coaguli nel sangue, infiammazione, pressione alta, irritazione del tratto digestivo, funzione immunitaria ridotta, sterilità, cancro e aumento di peso.

L’omega 3, spesso carente in proporzione all’omega 6, è necessario per l'apporto di ossigeno alle cellule, per metabolizzare importanti aminoacidi contenenti zolfo e per mantenere il giusto equilibrio nella produzione di prostaglandine. Il giusto rapporto tra omega 6 e omega 3 sarebbe di circa 4 volte più omega 6 che omega 3, ma dato che l’omega 6 è contenuto in un’infinità di prodotti preconfezionati, spesso assumiamo oltre 20 volte più omega 6 che omega 3. Le carenze di omega 3 sono state associate anche ad asma, malattie cardiache e difficoltà di apprendimento.

Uno dei motivi per cui gli omega 6, ma anche gli omega 3, possono causare problemi di salute è che tendono a ossidarsi e irrancidire se sottoposti al calore, all'ossigeno e all'umidità. Gli oli rancidi sono caratterizzati da radicali liberi. Il consumo eccessivo di oli polinsaturi ha dimostrato in molti studi di contribuire a varie patologie tra cui il cancro e le malattie cardiache, la disfunzione del sistema immunitario, diabete, problemi alla prostata, danni al fegato, alla tiroide, agli organi riproduttivi e ai polmoni, disturbi digestivi, crescita ridotta e aumento di peso.

Va tenuto presente che questi oli sopportano molto male l’ossigeno e il calore e, anche se non li si riscalda o si assume l’omega 3 tramite pillole di olio di pesce, dentro di noi essi sono comunque sottoposti al contatto con ossigeno e calore (alla temperatura interna del corpo umano) e producono radicali liberi. Vanno quindi assunti insieme ad antiossidanti. In particolare, quanto all’olio di pesce: i pesci che vivono in mari freddi hanno 14 volte più omega 3 rispetto ai pesci che vivono in mari più caldi, e noi, che abbiamo una temperatura del corpo di 37 gradi, abbiamo probabilmente un bisogno ancora minore di questa sostanza, pur indispensabile.

Inoltre, per assimilare bene gli omega 6 e 3 serve iodio, di cui molti sono carenti. Come osservo spesso l’intero è meglio della parte: mangiare pesce, che contiene anche iodio, sembra preferibile rispetto a prendere pillole con solo olio di pesce. Meglio sarebbe assumere olio di krill (il krill è un minicrostaceo che occupa il gradino più basso della catena alimentare e quindi non accumula inquinanti; inoltre contiene omega 3 in forma fosfolipidica e anche antiossidanti).

Quanti e quali: le raccomandazioni su grassi per chi è in buona salute

Le mie raccomandazioni in relazione ai grassi, valide per le persone in buona salute, sono di assumere una percentuale ragionevole di grassi, pari al 45% circa delle calorie quotidiane, nella forma di grassi sia saturi (un po’ meno della metà del totale dei grassi quotidiani) che monoinsaturi (un po’ meno dell’ altra metà, in particolare nella forma dell’olio d’oliva) completando il rimanente 10% circa con grassi polinsaturi, comprendenti omega 6 in proporzioni di poco superiori agli omega 3 (facendo attenzione a conteggiare l’omega 6 che, sotto forma di olio di girasole o con la dizione generica di “oli vegetali” si trova in tanti prodotti preconfezionati).

Una raccomandazione essenziale è inoltre quella di cercare di assumere i grassi nella forma cruda (la loro consistenza viene alterata quando sono surriscaldati). Se ogni tanto si deve friggere è bene usare il grasso di cocco o semmai di oliva, mentre gli oli polinsaturi (girasole, mais) non vanno mai usati. Tra l’altro, uno dei motivi per cui i grassi saturi vegetali sono da preferire a quelli animali è che è difficile poter mangiare grassi animali (anche quelli di pesce) nella forma cruda; per i latticini vale la pena di cercare delle fonti igienicamente affidabili che li offrono in forma non pastorizzata e omogeneizzata.

Non è infine nemmeno il caso di citare, in questo articolo dedicato ai grassi alimentari, le margarine e i grassi idrogenati-trans, che non sono degli alimenti ma sono dei non-cibi, dei composti artificiali chimici che hanno già fatto gravi danni a seguito di una pubblicità martellante che nei decenni trascorsi ha indotto molti a ritenere questi grassi molto più sani di quelli saturi. Mi risulta incomprensibile il fatto che dei prodotti chimici-industriali ottenuti riscaldando dei grassi insaturi a temperature di oltre 200° con un catalizzatore a base di nickel o altro, siano per decenni stati ritenuti più sani rispetto a un grasso che costituisce la metà dei grassi contenuti nel latte materno.

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mercoledì 5 giugno 2019

Akasa e la Teoria delle Stringhe




Akasa e la Teoria delle Stringhe

Medicina Non Convenzionale


Dall’antica sapienza indiana alla fisica dei quanti, la dimostrazione che niente è separato, tutto è collegato, tutto è una cosa sola

Antonio Morandi - 05/06/2019

L’idea originaria di Ākāśa la troviamo espressa nei Veda, il cuore della tradizione sapienziale dell’India da cui si è sviluppata tutta la vasta letteratura scientifica e spirituale che sta alla base della cultura indiana.

Per meglio comprendere il grado di complessità del tema è importante precisare che nella cultura indiana il concetto di Ākāśa è utilizzato in svariate modalità: in Āyurveda, la più importante Medicina Tradizionale Indiana è uno dei 5 elementi che costituiscono il corpo umano, nella Matematica Vedica è sinonimo di “zero” mentre nel Vastu Śastra, l’antica forma di architettura vedica, indica l’idea dello “spazio” che tutto pervade. Tutto quello che ha una forma, i “mattoni” della materia, gli organismi, le stelle, l’universo intero deriva da Ākāśa.

Che cos’è Ākāśa

Tutto quello che è percepibile dai nostri sensi evolve da Ākāśa, che tuttavia non è percepibile nella sua pura sostanza. L’elemento Ākāśa è l’anello di congiunzione fra uno stato potenziale puramente energetico della materia, il Brahman e l’Ātman della tradizione vedica, e la materia stessa. Da Ākāśa evolvono tutti gli altri elementi, o stati della materia, chiamati Pañca Mahābhūta secondo un ordine ben preciso di densità crescente: Ākāśa (Etere), Vāyu (Aria), Tejas (Fuoco), Jala (Acqua) e Pṛthvī (Terra). Questa sequenza evolutiva, che ritroviamo anche alla base dell’Āyurveda, è ben descritta in tutti i Darśana, i sistemi di pensiero, o se vogliamo filosofici, tradizionali dell’India.

La sequenza a densità incrementale dei Pañca Mahābhūta racchiude in sé un dato di primaria importanza: ogni elemento più denso poiché derivante dal precedente meno denso, ne contiene le proprietà. Quindi l’elemento meno denso ha un’informazione e una potenzialità creativa ed evolutiva, mentre quello più denso contiene l’informazione attuata del sistema. Le proprietà base dei singoli elementi sono progressivamente più complesse man mano che si progredisce nella sequenza. Ākāśa è caratterizzato dalla diffusibilità, Vāyu dalla capacità di pressione, Tejas da calore radiante, Jala dall’attrazione vischiosa e Pṛthvī dall’attrazione coesiva. Attraverso la presenza di Ākāśa in ogni elemento si diffonde quindi l’informazione dell’ordine primigenio. È evidente quindi come Ākāśa sia presente e determinante in tutti i Pañca Mahābhūta. Ākāśa offre il background affinché tutto avvenga.

Ākāśa e PrāṆa e la Teoria delle Stringhe

Secondo alcune correnti di pensiero indiane la spinta propulsiva in questa evoluzione è il Prāṇa. La relazione fra Ākāśa e Prāṇa determina la costituzione dell’universo e di tutta la realtà percepibile. Il Prāṇa è la forza vitale ed evolutiva di ogni organismo vivente, è coincidente con la capacità di esistere attraverso l’armonizzazione degli elementi, i Pañca Mahābhūta, che lo costituiscono. La descrizione di Ākāśa ne evidenzia la superiorità ontologica rispetto agli altri elementi. L’essenza stessa di Ākāśa è quindi un’informazione, una qualità vibratoria primordiale e prototipica che si diffonde e pervade, senza però che ci sia movimento.

È sconcertante come la descrizione di Ākāśa ricordi quanto espresso nella moderna Teoria delle Stringhe sulla costituzione dell’universo. Secondo questa teoria la realtà e le forze fondamentali della Natura possono essere considerate come delle corde, stringhe appunto, monodimensionali vibranti. Le stringhe hanno una dimensione infinitamente piccola, a livello della costante di Planck (10-35m), si diffondono nello spazio definendolo e interagiscono fra loro costituendo la rete della realtà: esattamente quello che secondo la cultura indiana fa Ākāśa. E così come a un livello dimensionale maggiore della costante di Planck le stringhe appaiono come normali particelle, con massa, carica e altre proprietà determinate dallo stato vibrazionale della stringa, Ākāśa a un livello maggiore di complessità si evolve negli altri stati della materia, negli altri elementi o Mahābhūta, per formare la realtà percepibile.

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Scienza e Conoscenza n. 68 - Aprile/Giugno 2019 — Rivista >> http://bit.ly/2YKRKHY
Nuove scienze, Medicina Integrata

martedì 4 giugno 2019

Quando l'amore e' patologico



Quando l'amore e' patologico

Psicologia Quantistica


Capire i meccanismi biochimici alla base dell’innamoramento e dell’amore ci aiuta ad avere consapevolezza dei nostri sentimenti

Carmen Di Muro - 03/06/2019

Ci innamoriamo allo stesso modo in cui inciampiamo, apparentemente per caso, senza volerlo e senza averlo programmato. Il nostro centro di gravità emotiva si sposta e noi ruzzoliamo nelle mani della sorte. “Innamorarsi” è come ritrovarsi in una scena dell’antica Grecia, dove la theia mania ci può fulminare per il capriccio di una divinità qualsiasi.

Anche se ci piace pensare all’amore come un’esperienza fatale, misteriosa e trascendente, la realtà è molto diversa. L’amore spesso svela il nostro più latente lato “folle”. La singolare caratteristica della ricerca sull’amore del XX secolo è che, di rado, ha potuto trattenersi dall’utilizzare il linguaggio della psicopatologia. Gli amanti sono maniaci, ossessivi, soffrono di attacchi d’ansia e si disperano.

Cosa si intende per amore patologico?

L’amore patologico (PL) è caratterizzato da comportamenti ripetitivi volti ad accudire in maniera incontrollata il partner, dedicandogli attenzioni costanti nel quadro di una relazione sentimentale. Il comportamento tipico del PL assume un ruolo fondamentale nei soggetti che ne sono affetti al punto da incidere negativamente su altri interessi preesistenti. Si tratta di una manifestazione amorosa in virtù della quale, la persona, sperimenta un sentimento possessivo incentrato sul bisogno dell’altro. La patologia può manifestarsi nella sua forma primaria, ovvero isolata, in soggetti molto insicuri, dominati da sentimenti di rifiuto, abbandono e rabbia. Altrimenti, può associarsi a disturbi psichiatrici, soprattutto depressione e ansia. Allorquando il PL si manifesta quale forma secondaria, intrattenere rapporti patologici fonte di sofferenza costituisce comunque un sollievo da altri sintomi.

Il fatto che tante persone vivano l’amore in modo sgradevole, eppure continuino a inseguirlo, ha lasciato per lungo tempo i ricercatori perplessi. In genere, tutti noi sappiamo che non si persevera in comportamenti che portano infelicità. L’eccezione si presenta, invece, nel caso si faccia ricorso ad agiti automatici che silenziano il frastuono dell’energia emotiva mettendo sotto scacco il pensiero. Il miglior esempio per descrivere questo stato è il “fenomeno dell’addiction”.

Una forma di dipendenza

La casistica indica che il PL presenta caratteristiche cliniche sovrapponibili alla dipendenza da alcol, da droghe, ma anche da altre attività. Il dato è stato corroborato dalla ricerca di alcuni studiosi presso il Control Disorder Outpatient Clinic (AMITI: Clinica per pazienti affetti da disturbi del controllo dell’impulsività) dove è stato possibile osservare e trattare 64 soggetti per un periodo di due anni. I ricercatori hanno confrontato i criteri proposti dall’American Psychiatric Association per valutare le sostanze in grado di indurre dipendenza con le caratteristiche rilevate nei soggetti affetti da PL.

In tal modo hanno proposto 5 criteri per diagnosticare il PL:

segni e simboli di astinenza in assenza del partner (insonnia, tachicardia, tensione muscolare, letargia, attività intensa);
intensificarsi del comportamento di accudimento e preoccupazione nei confronti del partner, tanto da lamentarsene;
mancanza di controllo rispetto al proprio comportamento, per cui si verificano tentativi fallimentari di interrompere il rapporto nocivo;
dispendio di tempo dedicato a controllare il partner e abbandono di altre attività sociali;
mantenimento del legame patologico nonostante i danni familiari, personali e professionali dallo stesso provocati.

Tutte queste caratteristiche sono chiaramente tipiche degli innamorati. Inoltre, amore e dipendenza mostrano ulteriori affinità riguardo al mutamento dei fattori che li fanno durare nel tempo. All’inizio la dipendenza è sostenuta dal piacere, ma tale intensità gradualmente diminuisce, finché a sostenerla è il desiderio di evitare la sofferenza. Lo stesso vale per l’amore, in quanto nella gran parete dei casi le relazioni finiscono sul fondarsi non sul piacere, ma sulla volontà di evitare il dolore associato alla separazione.

Il corpo: una fonte naturale di sostanze dopanti

Lo psichiatra americano M. Liebowitz affermò che si potevano raccogliere indizi sulla chimica alla base dell’amore individuando le analogie tra le diverse fasi dell’amore e gli effetti di sostanze psicoattive. L’iniziale slancio di eccitazione accostato all’innamoramento poteva essere associato a sostanze chimiche simili alle anfetamine o ad altri stimolanti (come la cocaina). Stati di tranquillità o sicurezza, invece, erano influenzati da composti analoghi ai narcotici (come eroina, oppio o morfina), ai tranquillanti (come il valium) o ai sedativi (come barbiturici, alcol e cannabis). Inoltre, Liebowitz sostenne che le esperienze più trascendenti legate all’amore, come l’accresciuta percezione della bellezza, l’impressione di eternità e altre sensazioni spirituali erano veicolate da sostanze simili agli psichedelici (come LSD, mescalina e psilocybin). In questo senso il corpo umano può essere visto come una grande farmacia naturale che produce anfetamine, barbiturici e psichedelici e questo spiegherebbe perché l’amore viene tanto spesso paragonato alla dipendenza.

Per esempio, una delle sostanze chimiche più importanti che vengono liberate quando due potenziali amanti si incontrano è la feniletilamina (PEA), un composto simile all’anfetamina che risolleva l’umore e il livello di energia. Di solito ad essa si associa il rilascio di ormoni della paura che acuiscono i sensi, come l’adrenalina e la noradrenalina. Il potente cocktail di PEA e ormoni attacco/fuga genera uno stato di vertiginosa eccitazione: un flusso di energia potentissima. Tutto ciò mette in risalto il perché si desideri l’amore con tanta intensità, ma anche perché interrompere un’avventura romantica nelle sue fasi iniziali sia così doloroso. Anche se la coppia non si conosce abbastanza a fondo, il rifiuto può essere devastante in quanto il livello di PEA crolla di colpo e, proprio come un tossicodipendente, l’amante cade in uno stato depresso e agitato.

L’affermazione di Liebowitz secondo cui c’è molto da imparare dalle corrispondenze tra gli effetti dell’amore e quelli delle sostanze psicoattive si è rivelata una pietra miliare, che ha dato il via a un corpo sempre più ampio di ricerche biochimiche a supporto della sua tesi.

L’amore è una “molecola potentissima”: la forza fondamentale che presiede il benessere psicofisico. E avvicinarsi all’amore con un’ottica scientifica, comprendere le sue dinamiche patologiche, imparare a riconoscere i processi biologici che lo sottendono non attenuerà l’intensità con cui lo viviamo, non spegnerà la sua meraviglia ma, anzi, potrà aiutarci a lenire la sofferenza che spesso si lega a queste condizioni e che molto spesso può sfociare in patologia a tutti i livelli. La biologia non degrada i sentimenti, ma ci rende consapevoli del fatto che la loro origine è nel nostro essere e farci corpo.

Riconoscere che l’amore è un’energia dinamica che alberga dentro di noi, nel profondo della nostra anima, diviene il mezzo per riconoscere in pieno la sua grandezza. Grandezza che diviene ancora maggiore quando, vivendo pienamente nell’amore, l’uomo diventa capace di superare se stesso.

BIBLIOGRAFIA

Fisher H, 1992. Anatomy of love. New York, Fawcett Columbine.

Gonzales-Maeso J & Sealfon SC, 2009. Psychedelies and schizophrenia. Trends Neurosci; 324: 225-232

Liebowitz M, 1983. The chemistry of love. Boston. Little Brown and com.

Moss E, 1995. Treating the love-sick patient. Isr J Psychiatry Relat Sci; 32: 167-173.

Sophia EC, Tavares H, Berti M, Pereira AP, Lorena A, 2009. Pathological love: Impulsivity, Personality and Romantic Relationship; CNS Spectr; 14(5): 268-274.

Tallis F, 2005. Love Sick. Love is a mental illness. Thunder’s Mounth Press.

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