mercoledì 13 febbraio 2019

La riscoperta della coscienza animale e umana 1



La riscoperta della coscienza animale e umana 1

prima parte

Gli animali hanno una coscienza come noi umani? In questo articolo parliamo di uno dei quesiti che ci poniamo più frequentemente e a cui spesso non riusciamo a dare una risposta


di Angelo Tartabini - 12/02/2019

Il modo migliore per dissolvere il “mistero” della coscienza è di comprendere nella sua totalità i processi del cervello che a essa sottostanno. Ciò che per ora si può dire è che la coscienza, qualsiasi cosa essa sia, è, e rimane una caratteristica fondamentale della mente con stati di sensibilità e consapevolezza che iniziano quando ci svegliamo al mattino e si spengono quando ci addormentiamo. Ora, il punto è chiedersi se la coscienza esista anche negli animali, cioè se la coscienza, nella somiglianza, e nella diversità, ontologicamente soggettiva e indivisibile per noi esseri umani, lo sia anche per gli animali.

In questo articolo dimostreremo che gli animali (scimmie in particolare) sono coscienti di se stessi e delle loro azioni, di quello che capita loro attorno, delle loro condizioni sociali, eccetera. Per dimostrarlo faremo degli esempi, parleremo di molti esperimenti e citeremo molte opinioni di autorevoli scienziati e filosofi, anche se il dibattito su questo tema non si è ancora chiuso e chissà se mai si chiuderà.

 La coscienza si sta studiando in diversi campi della ricerca, in primo luogo in filosofia, poi nelle scienze cognitive, per esempio, con l’intelligenza artificiale e il computazionalismo, anche nelle neuroscienze, quindi, con orientamenti e prospettive scientifiche abbastanza diverse tra loro. Sulla coscienza sono stati scritti molti libri e articoli scientifici, ma per ora la conclusione è che nessuno può spiegare che cosa sia veramente (Penfield, 1975; Dennett, 1991; Searle, 1997; Koch, 2004; Humphrey, 2006; Massimini & Tononi, 2013; Savoldi et al., 2014; Sacks, 2017).

Non esiste ancora una “teoria del tutto” sulla coscienza e, forse, mai ci sarà. Ciò che si può dire, per ora, è che la coscienza è una funzione psicologica privata, vissuta in prima persona, irriducibilmente soggettiva e una proprietà che emerge causalmente dalle attività neurali (Searle, 1992).

La coscienza è estesa nel tempo, ma non ha una dimensione spaziale; sopravviene sul fisico, ma non è che si possa ridurre ai corrispondenti stati neurofisiologici del nostro organismo, soprattutto del cervello che la sottintende. Fisico e sopravvenienza per la coscienza, sembrano parole antitetiche, ma nella realtà non lo sono, e qui sta il punto.

Se questo è lo stato delle cose, che cosa possiamo dire? Ciò che si può affermare è che saremo in grado di capire che cosa sia veramente la coscienza quando capiremo come funziona il cervello nella sua totalità e complessità biologica (naturalismo biologico della coscienza). Nulla di più, nulla di meno (Searle, 1997).

Le diverse teorie della coscienza

Come fanno i processi neurobiologici che avvengono nel cervello a causare la coscienza? Rispondere non è facile e per spiegarlo sono state messe in campo molte teorie, addirittura un tentativo sulla base della meccanica quantistica che studia l’attività subneurale e quindi di parti infinitamente piccole delle cellule nervose (Penrose, 1989).

Per quanto quest’ultima idea sia avvincente, il risultato è che essa, per ora, non ci ha portati da nessuna parte. Per altri ricercatori, invece, la coscienza è solamente un prodotto dell’evoluzione, un processo che è maturato nel tempo, addirittura dal Cambriano, più di 500 milioni di anni fa, in poi, quindi molto prima che noi umani apparissimo sulla faccia della Terra.

Attraverso la pressione selettiva di alcuni gruppi neurali (mappe neurali) (Edelman, 1987), cioè meccanismi cerebrali minimi, furono indispensabili per dar vita alla coscienza, anche se, sarebbe meglio dire dei nuclei del tronco encefalico, del telencefalo e dell’ipotalamo che si trovano sotto la corteccia cerebrale.  

Altri studiosi dicono che le leggi che regolano gli eventi mentali, quindi anche la coscienza, e gli eventi fisici, siano identiche (teoria dell'identità (Davidson, 1990), anche se, il linguaggio usato dall’uomo, con tutti i suoi limiti, per descrivere la coscienza, non può essere sempre ricondotto al linguaggio della fisica.

E per la Psicologia, che cos’è la coscienza?

La coscienza è stato il primo oggetto d’indagine della psicologia moderna che l’ha definita come un insieme di processi che vanno dai riflessi agli atti volontari, dalle sensazioni alla formazione delle immagini, dalle emozioni alla memoria, dall'attenzione alle motivazioni, dalla percezione ai sentimenti: in sostanza, tutto l’insieme delle funzioni psicologiche che caratterizzano l’essere umano.

Nel 1878 Wilhelm Wundt, il fondatore della psicologia scientifica moderna e autonoma, fino ad allora la psicologia era stata fortemente e negativamente condizionata dalla metafisica, definì la coscienza “sintesi creativa” (Wundt, 1896)(Kant la chiamò l’Unità trascendentale dell’appercezione).

In conclusione, la coscienza non è nulla di ben definito, sebbene si sappia benissimo che ci consente di possedere un’infinità di stati mentali, per esempio la gioia, l’affetto materno, la sofferenza, l’ammirazione, la gratitudine, l'innamoramento, la saggezza.

Ci consente inoltre di vivere stati motivazionali come quelli agonistici, sessuali, cooperativi, affiliativi e infine ci permette di provare dei sentimenti attraverso le esperienze del nostro corpo in una sorta di automatismo omeostatico (come recentemente ha sostenuto Antonio Damasio, 2017), in sostanza di mantenere in equilibrio le nostre attività funzionali con l’ambiente, soprattutto quando si tratta di proteggere il nostro organismo da influenze negative esterne.

La coscienza, inoltre, ci consente di prenderci cura di noi stessi e degli altri, di essere intelligentemente altruisti, di divertirci, ma anche di nutrirci. A proposito del nutrimento, il filosofo analitico americano John Searle (1992), un giorno, scrisse che “gli eventi e i processi mentali, quindi anche la coscienza, fanno parte della nostra storia naturale non meno della digestione, della mitosi o della secrezione enzimatica”.

L’idea di Searle sembra una provocazione, ma in realtà non lo è; Searle non intendeva nemmeno alludere ad un riduzionismo biologico. La sua era un’idea semplicemente realistica, anche se non sono stati pochi coloro che la rifiutarono. Il fatto è che il materialismo scientifico negli ultimi due/trecento anni, insieme al dualismo che ancora pervade la nostra cultura e quindi anche il nostro linguaggio, che resiste ancora ad una visione di una mente come idea del corpo, come fu la visione anticipatrice di Baruch Spinoza, addirittura nel XVII Secolo, insieme, nei nostri giorni, all’invasione dell’intelligenza artificiale, dei media e dei telefonini, per non parlare dell’identificazione della coscienza con l’anima o lo spirito, hanno reso praticamente impossibile spiegare scientificamente che cosa sia veramente.

Quindi l’idea di una coscienza come prodotto di un’attività neurale, ancora non esiste nel pensiero dell’uomo. Il fatto invece che qualsiasi sistema capace di elaborare simboli, come fa un calcolatore o un robot, operi come la nostra mente, è un’idea diffusissima. Questo modo di pensare non ci ha culturalmente arricchiti, ma ci ha portati a un impoverimento della nostra condizione e ci sta spersonalizzando. Ha fatto venire meno il nostro senso critico e, quel che è più grave, sta promuovendo un analfabetismo culturale di ritorno gravissimo. Sta avvantaggiando la mediocrità. Ci sta avviando verso una crisi irreversibile di valori umani autentici.

approfondisci su:

Scienza e Conoscenza n. 67 - Gennaio/Marzo 2018 >> http://bit.ly/2FFrLu7
Nuove scienze, Medicina Integrata