La “luce” dei simboli: psicoterapia, fotoni e DNA
Neuroscienze e Cervello
Secondo un’ipotesi affascinante l’approccio
psicoterapeutico analogico e simbolico potrebbe influenzare l’emissione di
fotoni da parte dei microtubuli del cervello e l’espressione del DNA
Redazione Scienza e Conoscenza - 15/04/2019
Tratto dall'articolo La “luce” dei simboli: psicoterapia,
fotoni e DNA di Diego Frigoli, apparso su Scienza e Conoscenza 68.
In tutte le civiltà si è sempre celebrata la luce come
fenomeno fisico e al contempo come immagine simbolica, dotata di uno spettro di
iridescenze metaforiche capaci di parlare a tutte le sfumature dell’anima.
Ricordiamo le riflessioni profonde prodotte dalla meditazione Taoista,
Induista, Kabbalista, Cristiana, Gnostica, Alchemica, giusto per citare le più
note, ma l’esperienza dell’anelito alla luce è così generale nell’essere umano,
da qualificarla come una vera e propria istanza archetipica, una tensione cioè,
a esprimere l’eterno gioco degli opposti, che nel caso della luce riguarda il
suo confronto con l’ombra (Frigoli D., 2017).
Anche nel campo della fisica la costituzione della luce
presenta una sua ambiguità di fondo, che sembra sottrarla a una definizione
precisa: essa è composta da fotoni, che a seconda dell’osservatore, si comportano
come particelle o come onda. Sul piano psicologico questa ambiguità sfuggente,
che dipende dal ruolo dell’osservatore, è la stessa che esiste fra la coscienza
e l’inconscio (Frigoli D., 2013); questo fatto portò due immensi protagonisti
della scienza come Wolgang Pauli e Carl Gustav Jung a confrontarsi sulla realtà
della fisica quantistica e la dimensione dell’inconscio e delle sue leggi (Jung
C.G., Pauli W., 2015).
Oggi noi sappiamo che la luce è simbolo della coscienza e
che la natura della coscienza è “affondata” nella natura del corpo, come ci
ricordano Humberto Maturana e Francisco Varela (Maturana H., Varela F., 1987)
pertanto l’azione del portare alla luce la coscienza, sottraendola all’ombra
dell’inconscio non significa solo un’esplorazione psicologica dei traumi e
delle delusioni che hanno costellato la nostra esistenza, ma se si vuole
confrontarsi con l’archetipico presente nello studio della luce, occorre, in
termini alchemici, sprofondare nel nostro corpo, individuare le forze
istintuali che lo sorreggono e trasformare le stesse in metafore adeguate a
esprimere la loro “sostanza”, resa finalmente accessibile alla coscienza
(Frigoli D., 2017).
A questo e non ad altro si riferisce il processo di
individuazione psicologica e ne rappresenta un pallido esempio. Tutti colgono
della luce il suo lato psicologico di illuminare l’ignoto, e hanno sempre
descritto la dialettica luce-tenebre come un paradigma morale e spirituale,
destinato a permettere un dialogo con il divino per sottrarsi a quel mondo di
tenebre e di «ombre mortali, paese della caligine e dell’opacità, della notte e
del caos, in cui la stessa luce è tenebra fonda» (Giobbe, 10, 21-22, 2010).
In realtà il rapporto luce-tenebre è molto più complesso,
perché la relazione fra l’oscurità e la luce non è semplicemente etica – nel
senso che l’oscurità corrisponde alla privatio boni degli gnostici, mera
essenza del bene cioè, e la luce alla presenza del Logos –, ma semmai è dotata
di uno statuto ontologico più vasto, ben espresso dalla dualità simbolica delle
divinità Shiva e Parvati (Coomaraswami A., 2011) dell’induismo, unite in una
eterna danza cosmica, e dal simbolo più conosciuto, legato al taoismo, dove i
principi dello yin e dello yang sono riuniti nel loro eterno movimento in una
totalità assoluta, quella dell’Uno che li abbraccia (Granet M., 1971).
Le sfumature del Tao Quale significato attribuire a
queste immagini per individuare il loro valore archetipico? È evidente che
questa danza di opposti – di come cioè nella Luce sia presente l’Oscurità
(l’ombra della luce) e l’Oscurità la Luce (la luce dell’ombra) – sta a
significare non soltanto la relatività della dialettica Luce-Ombra, secondo la
quale tali opposti non sono mai da considerare assoluti, ma anche la
possibilità di poter trasformare tale opposizione apparente in una realtà più
sfumata, più duttile, perché aperta alla trasformazione. In termini etici si
può parlare di come dal bene possa scaturire il male e di come dal male possa
scaturire il bene.
Questa riflessione è la più nota nel mondo occidentale,
che però non ha compreso in profondità il valore archetipico di questo simbolo,
a differenza dell’Oriente dove il simbolo stesso assume caratteristiche di
importanza primaria nel descrivere una “pratica” trasformativa dell’essere umano
verso la dimensione della sua totalità (Cooper J.C., 1985).
Non a caso la storia di tale simbolo, che si perde nella
notte dei tempi, nasce dalle esperienze dei veggenti taoisti, che come i rishi
delle Upanishad, sapevano conoscere la natura del Cosmo e dell’Uomo per via
intuitiva, attraverso percezioni subliminali in cui la mente, diventata sempre
meno opaca grazie al costante immergersi consapevole nell’opacità, procurava un
tipo di conoscenza in cui la commistione dello yin e dello yang diventava l’espressione
delle infinite forme della realtà, presenti nel corpo dell’uomo sotto forma di
forze istintuali. La coscienza consapevole delle forze corporee degli istinti
li rendeva progressivamente liberi dal loro automatismo, permettendo alla
coscienza rinnovata la scoperta della propria trasformazione.
Per questo il simbolo del tàijítú – come peraltro tutti i
simboli in cui si esprime la dialettica degli opposti – è stato assunto
dall’alchimia cinese a indicare l’arduo percorso e la pratica operativa di
individuazione della scintilla del Sé definita, a seconda delle culture,
Embrione immortale e Lapis Philosophorum (Jung C.G., Wilhelm R., 1981).
Nuove scienze, Medicina Integrata