Che cos'e' la sofferenza?
Ce ne parla il professor Guido Giarelli
Medicina Non Convenzionale
Viviamo in un tempo di grande sofferenza, un malessere
sociale diffuso talora esplicito e mediatizzato, talora impalpabile, silenzioso
e occultato dai mass media: come inquadrare questa situazione di disagio?
Carmen Di Muro - 03/12/2019
Forse come non mai, in questo periodo storico, la salute,
la malattia e la medicina costituiscono i punti salienti per una visione
privilegiata della società e delle sue trasformazioni, ma soprattutto della
condizione umana. Da questa prospettiva di osservazione si colloca il
contributo di Guido Giarelli, sociologo e professore di “Sociologia generale e
della salute” presso l’Università ‘Magna Græcia’ di Catanzaro, Vice-President
of ISA RC15 Sociology of Health, al quale va il merito, oltre di aver operato il
superamento della storica frattura tra scienze biomediche e scienze sociali
attraverso un nuovo paradigma connessionista – che per la prima volta in Italia
ha visto l’inserimento organico delle discipline sociologiche in una Facoltà di
Medicina – di donarci spunti dilatati per poter ricomprendere la complessità
dell’essere umano e la multidimensionalità del reale, partendo da uno dei temi
ontologici fondamentali, quale quello della sofferenza. Viviamo, infatti, in un
tempo di grande sofferenza, un malessere sociale diffuso talora esplicito e
mediatizzato, talora impalpabile, silenzioso e occultato dai mass media. Da qui
prende le mosse il suo discorso scientifico sulla sofferenza che si snoda tra
le righe del suo nuovo libro Sofferenza e condizione umana. Per una sociologia
del negativo nella società globalizzata edito da Rubbettino, in cui Giarelli
offre un’analisi ad ampio raggio della dimensione esistenziale, come radicale
significazione conoscitiva del rapporto inscindibile tra sé e mondo attuale, premessa
indispensabile per l’iniziazione ad un’azione non moralistica, ma
responsabilmente efficace.
Professor Giarelli lei ha scritto numerosi saggi. In
rapporto al suo ultimo volume, lei parla di sofferenza come componente
intrinseca della condizione umana. Cosa ha motivato il suo viaggio
epistemologico?
Sino ad oggi non è esistita una riflessione sociologica,
in generale scientifica, sulla sofferenza. Il concetto di sofferenza è stato
bandito dalle scienze sociali e questo è abbastanza strano se pensiamo che, in
fondo, le scienze sociali sono nate proprio per spiegare quei fenomeni come la
povertà e l’alienazione, che in qualche modo implicano sicuramente sofferenza.
Uno dei motivi di questa mancata considerazione del concetto di sofferenza
nelle scienze sociali parte da una distinzione banale tra il dolore da un lato,
visto come fatto puramente sensoriale e relegato all’ambito delle scienze
neurologiche e mediche, e la sofferenza dall’altro, interpretata come una
categoria più puramente psichica, appannaggio della psicologia e delle scienze
sociali. Per superare questa distinzione triviale occorre tener presente, come
già Illich ci ha insegnato, che “in ogni dolore c’è un’interpretazione che noi
chiamiamo sofferenza”. Questo è il contributo precipuamente umano alla
percezione del dolore, per cui quando noi percepiamo il dolore lo traduciamo
mentalmente e culturalmente in sofferenza, secondo le categorie della nostra
cultura. Viceversa siamo in grado, anche senza provare dolore, di soffrire nel
momento in cui riteniamo che una determinata esperienza di vita ci produca
sofferenza. La distinzione tra dolore e sofferenza va superata dal momento che
tra le due c’è una stretta interconnessione, così come esiste una stretta
relazione tra corpo e mente.
Lei è stato uno dei primi nel panorama nazionale a
parlare di Medicina Narrativa. Qual è il potere della narrazione in medicina
nel trasformare le storie di malattia e di sofferenza in storie di cura?
Preferisco parlare di “narrazione in medicina” piuttosto
che di Medicina Narrativa perché, per chi non è addentro a questo ambito, il
rischio è quello di intenderla come un approccio terapeutico, e infatti c’è chi
utilizza le narrazioni in chiave terapeutica, ma questo non è il vero senso
della narrazione in medicina. Si tratta, invece, di utilizzare la narrazione
come uno strumento fondamentalmente metodologico che ci consente di tener conto
in maniera più completa di quello che è l’incontro terapeutico, al di là della
visione riduzionistica di questo incontro, che poi è quella che ha dominato
fino ad oggi il panorama biomedico. Il potere della narrazione è il potere del
simbolico, ovvero della nostra capacità di pensare alla realtà e di definirla
secondo delle categorie culturalmente acquisite attraverso il processo di socializzazione.
Da questo punto di vista, se consideriamo la malattia come un evento sociale
che si realizza tra soggetto soffrente ed équipe terapeutica, la narrazione ci
dona la possibilità di uscire dall’esclusivismo del punto di vista biomedico
portandone alla luce molti altri. Non esiste un unico punto di vista sulla
malattia, così come non esiste un unico modo di affrontarla, e la prima utilità
della narrazione è quella di comprendere questa pluralità. La seconda utilità,
che poi è quella fondamentale, è quella di andare a ridefinire la trama
dell’incontro terapeutico, ovvero le relazioni che connettono tra di loro
questi diversi punti di vista e le azioni conseguenti, in modo tale da mettere
“la realtà al congiuntivo”, cioè al possibile, al fine di operare una
modificazione dell’esistente tale da mettere in atto la cura e, possibilmente,
la guarigione. Questo può avvenire se, una volta utilizzate le narrazioni per
capire i diversi punti di vista, si cerca di ridefinire insieme un percorso,
una diagnosi, una terapia e una riabilitazione, al fine di risolvere il
problema che si sta affrontando.
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Scienza e Conoscenza n. 65 - Luglio-Settembre 2018
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Nuove Scienze, Medicina non Convenzionale, Coscienza