Ripensare la scienza della nutrizione
Whole - Vegetale e Integrale
di T. Colin Campbell
La verità. Come e perché vi è stata negata.
Ecco ciò che troverete in questo libro.
Con il libro The China Study, T. Colin Campbell ha
rivoluzionato il nostro modo di considerare il cibo dimostrando come una dieta
senza proteine animali e basata su alimenti vegetali e integrali sia la più
sana e naturale.
Ora, con Whole, Campbell ci spiega la teoria scientifica
che è alla base di questa scoperta, ci dimostra come il nostro attuale modello
medico sia errato perché ignora l'affascinante complessità dell'organismo
umano. Inoltre ci fornisce i motivi per cui, nonostante le prove schiaccianti di
quanto siano errate le conoscenze nutrizionali che crediamo di possedere, le
nostre abitudini alimentari non sono cambiate.
"Whole, Vegetale e Integrale" è un viaggio
rivoluzionario e illuminante nell'alba del nuovo pensiero nutrizionale,
un'avventurosa impresa scientifica ricca di straordinarie implicazioni per la
nostra salute e per il nostro mondo.
Quello lanciato dal dott. T.Colin Campbell è un monito
appassionante per chiarezza e intenti:
ciò che mangiamo determina come stiamo, e soprattutto
come staremo.
"In questo libro provocatorio, T. Colin Campbell
rivela come e perché in tema di cibo e salute regni la più totale
disinformazione e indica le strade da percorrere.
The China Study ci ha svelato cosa mangiare; Whole ci
dice perché."
Dott. Dean Ornish, autore del bestseller mondiale Il
Metodo Ornish
"Il nutrizionista numero uno d'America, T. Colin
Campbell, illustra con coraggio e convinzione cosa stia impedendo a tutti noi
di accedere alla verità su alimentazione e salute ottimale"
Dott. Caldwell Esselstyn, Jr, autore del libro Come
prevenire e guarire le malattie cardiache con l'alimentazione.
Presentazione del Libro
“Raccontare questa storia non è stata un’impresa da poco.
So bene che una dieta a base di soli alimenti vegetali appare un po’
stravagante a molti lettori. Ma ora, le cose stanno cominciando a cambiare. Con
il passare del tempo, questa idea sta diventando sempre più grande.
Il sistema attuale non è sostenibile. L’unica domanda
aperta è se riusciremo a liberarci prima di essere travolti dal suo crollo o se
continueremo a inquinare i nostri corpi, le nostre menti e il nostro pianeta
con le scorie del sistema finché esso collasserà sotto il suo stesso peso
economico e la sua logica biologica.
Per noi generazioni precedenti, il nostro modo di
mangiare sembrava una questione personale e privata: le scelte alimentari non
sembravano contribuire molto in un senso o nell’altro al benessere o alla
sofferenza degli altri, per non parlare della vita animale e vegetale e della
capacità biologica dell’intero pianeta. Ma, se mai questo è stato vero in
passato, le cose non stanno più così.
Ciò che mangiamo, a livello individuale e collettivo ha
ripercussioni che vanno ben oltre il nostro girovita e i valori della nostra
pressione sanguigna.
È in gioco niente meno che il futuro della specie.
La scelta sta a noi.
La mia speranza è che questo libro vi incoraggi a
scegliere con saggezza: per la vostra salute, per le prossime generazioni e per
l’intero pianeta.”
T. Colin Campbell
Tutta la Verità - Estratto da "Whole - Vegetale e
Integrale"
«La storia è una gara fra istruzione e catastrofe»
Herbert George Wells
Nel capitolo precedente ho argomentato come ciò che
mangiamo possa avere un maggior impatto sulla salute di qualsiasi altra cosa.
Le prove che insieme ad altri ricercatori ho accumulato negli anni indicano
nella dieta vegetale e integrale la dieta umana ottimale.
Rimando il lettore al mio libro precedente, The China
Study, per un approfondimento delle evidenze scientifiche a sostegno di questa
tesi.
Ovviamente, malgrado le prove addotte, non tutti al mondo
sono convinti che una dieta a base vegetale sia il miglior modo di mangiare per
la salute umana e per il pianeta.
I media pullulano di opinionisti che contraddicono le mie
affermazioni, spesso in maniera piuttosto articolata e divertente.
Il fatto è che è estremamente facile per i miei
oppositori estrapolare singoli dati e utilizzarli per sostenere conclusioni
opposte alle mie. In realtà, come si possono valutare le prove scientifiche
senza diventare esperti di biochimica, cardiologia, epidemiologia e di decine
di altre discipline che fornirebbero il contesto necessario?
Prima di descrivere gli ostacoli a una più vasta adozione
della dieta vegetale e integrale vorrei affrontare la questione degli
oppositori e delle loro critiche esponendovi il mio modello valutativo per la
ricerca medica e nutrizionale. La mia speranza è che questo vi aiuti a capire
il senso dell’assurdo ostruzionismo e delle mezze verità che vengono prese come
legittime critiche della dieta vegetale e integrale, e nei media passano
addirittura per informazione in tema di salute.
Una volta che sarete immunizzati contro la “moda
salutistica della settimana”, potrete affrontare più smaliziati e sicuri le notizie
ufficiali su questo tema, e avrete ancor più validi strumenti per giudicare da
soli le prove a favore della dieta vegetale e integrale e le obiezioni che ha
ricevuto.
VALUTARE LA RICERCA IN CAMPO SANITARIO
Se seguite le notizie televisive, ogni settimana vi
verranno raccontate storie di nuovi farmaci promettenti, nuove terapie
genetiche, nuovi macchinari high-tech e nuove indicazioni salutistiche
collegate a cibo, vitamine, enzimi e altri micronutrienti. Nessuna di queste
“scoperte decisive” offre lontanamente gli stessi vantaggi della dieta vegetale
e integrale, anche se vi sarà difficile capirlo dalle notizie strombazzate e
malinformate riguardanti le ricerche che le hanno originate.
Prima di opporre le mie prove alle loro, parliamo di come
valutare la ricerca in generale, altrimenti resteremo intrappolati in diatribe
del tipo «Tizio ha detto, Caio ha dichiarato», in cui ha ragione chi urla più
forte (o, in questo caso, chi è più sponsorizzato).
Quando sentite un’affermazione sulla salute relativa a un
prodotto alimentare, ponetevi tre domande: è vero? È tutta la verità, o solo
una parte? È rilevante?
È vero? Il primo passo per valutare un’affermazione nel
campo della salute è determinare se le ricerche che forniscono le relative basi
teoriche sono state condotte in modo adeguato: in altre parole, se sono state
ben impostate, condotte in modo professionale e riportate in forma
sufficientemente accurata da permettere di scoprire qualche aspetto della verità.
Sfortunatamente, alcuni studi sono impostati e condotti
in modo così poco scientifico che le loro conclusioni sono sciocchezze belle e
buone. Eppure, la verosimiglianza di questi risultati aumenta in modo eclatante
quando l’organizzazione che ha sovvenzionato la ricerca ha buone probabilità di
far soldi grazie a un particolare risultato. In realtà, sono affidabili i
risultati che, idealmente, sono stati riprodotti in esperimenti multipli,
preferibilmente da ricercatori diversi, e comunque sottoscritti da finanziatori
differenti.
È tutta la verità? È altrettanto importante considerare
anche ciò che “loro” non dicono sui potenziali effetti collaterali e sulle
altre conseguenze non intenzionali di una particolare linea d’azione.
In natura (e il nostro corpo idealmente è un prodotto
della natura), quasi ogni cosa è connessa con ogni altra. Se avete mal di testa
e prendete una pillola, potrete essere certi che nel vostro organismo quel
medicinale provocherà molti altri effetti oltre ad alleviare il dolore. Allo
stesso modo, se seguite la dieta vegetale e integrale per prevenire le
cardiopatie, ne avrete benefici che vanno ben oltre la salute delle arterie.
Quando sentite parlare di una pillola miracolosa che fa
abbassare la pressione sanguigna, siate sempre curiosi sugli altri effetti
(“collaterali”) del farmaco, poiché in realtà non ci sono effetti
“collaterali”, ma solo effetti. Domandatevi sempre quale sia l’effetto di una
particolare misura sanitaria, oltre ai suoi obiettivi dichiarati.
È rilevante? Come vedremo nel corso di tutto il libro,
parecchie delle cosiddette scoperte mediche in realtà non sono così
impressionanti come il marketing le fa apparire. Forse sarà commercialmente
valido giocare con le statistiche per aumentare le vendite, ma non è scientifico.
Uno dei modi per farlo (senza necessariamente affermare
il falso) consiste nel selezionare con cura un dettaglio, riportarlo senza
contesto e attribuirgli indirettamente un’importanza molto maggiore di quella
che riveste in realtà.
Un farmaco potrebbe per esempio ridurre il colesterolo,
senza avere il minimo effetto sul tasso di infarti e ictus. Poiché il pubblico
presume che un basso valore di colesterolo garantisca una migliore salute
cardiaca, la pubblicità del prodotto probabilmente strombazzerà ai quattro
venti il calo del colesterolo, e affermerà addirittura che un valore inferiore
del colesterolo è tipicamente associato con un rischio inferiore di malattie
cardiovascolari, tacendo opportunamente il fatto che quel particolare farmaco
non sembra affatto garantire un rischio inferiore: la sua capacità di ridurre
il colesterolo non è davvero rilevante, almeno in riferimento alla longevità e
alla qualità della vita di chi lo assume.
In realtà occorre avere una conoscenza diretta del metodo
scientifico per valutare le affermazioni relative alla salute in base ai primi
due criteri (è vero, ed è tutta la verità?), oltre che per avere accesso ai
dettagli che riguardano l’impostazione della ricerca.
Tuttavia, anche se non siete scienziati, non disperate.
Se state guardando la pubblicità di un farmaco su una rivista, non dovrete far
altro che voltar pagina e leggere le avvertenze fittamente stampate a caratteri
minuti.
Oppure potrete consultare le riviste revisionate da
esperti.
Questo procedimento scientifico prevede che i risultati
di una ricerca, prima di essere pubblicati, vengano revisionati e sottoposti al
giudizio critico di professionisti qualificati. Si tratta di una strategia che
offre alla comunità scientifica un’opportunità di mettere alla prova i
risultati della ricerca in modo accessibile all’esame dei professionisti e del
pubblico: un’occasione per riprodurre e verificare le osservazioni scientifiche
o per dimostrare che sono false. Potrà non essere ritenuto un sistema perfetto,
ma personalmente non ne conosco uno migliore: quantomeno promuove l’obiettività
e l’integrità e offre ai lettori delle riviste revisionate un buon grado di
affidabilità rispetto ai dati scientifici pubblicati nelle sue pagine.
Quanto alla terza domanda – se cioè le implicazioni di
una nuova indicazione salutistica siano rilevanti – si tratta di qualcosa che
quasi tutti noi possiamo valutare autonomamente. Tutto ciò che occorre è un po’
di buon senso.
COME STABILIRE SE UNA MISURA SANITARIA SIA RILEVANTE
Se rifletto sulla rilevanza di una particolare misura
sanitaria – se cioè sia meritevole perseguirla a livello individuale,
commerciale o scientifico – personalmente utilizzo tre criteri di base,
elencati qui di seguito in ordine inverso di importanza:
Quanto tempo impiega per funzionare? (Rapidità).
Quanti problemi di salute contribuisce a risolvere?
(Ampiezza).
Quanto migliorerà la mia salute grazie a questo
intervento? (Profondità).
Rapidità
Quanto tempo ci vuole perché una sostanza nutritiva, un
farmaco, una modificazione genetica o qualsiasi altro fattore producano davvero
un effetto all’interno dell’organismo?
Non sto parlando del tempo necessario perché una sostanza
venga assorbita nel flusso sanguigno e trasportata alle cellule tissutali. Mi
sto invece domandando: “Quanto tempo deve passare perché ci sia un effetto
significativo, come un aumento di energia o la riduzione dei sintomi di una
malattia?”.
La rapidità con la quale si presenta la maggior parte dei
benefici nutrizionali in chi adotta la dieta vegetale e integrale è
sbalorditiva. I diabetici devono essere sottoposti a monitoraggio a partire dal
primissimo giorno, in modo da ridurre l’assunzione dei farmaci via via che la
dieta ha effetto, altrimenti correrebbero il rischio di avere un calo di
zuccheri tale da causare una crisi ipoglicemica.
Anche gli alimenti privi di sostanze nutritive funzionano
con grande rapidità, ma in senso opposto. Per esempio, dopo 1-4 ore dal consumo
di una colazione a elevato contenuto di grassi da McDonald’s (Egg McMuffin®,
Sausage McMuffin®, due frittelle di hash brown, una bevanda senza caffeina) i
trigliceridi nel siero subiscono un’impennata (aumentando il rischio di
cardiopatie e diabete e di molte altre patologie) e le arterie si induriscono
(causando l’aumento della pressione sanguigna). Il ritorno alla normale
fluidità richiede diverse ore. Niente di tutto questo accade dopo una colazione
a ridotto contenuto di grassi a base di cereali e frutta.
Quando il mio amico e collega Caldwell Esselstyn Jr.,
M.D., cominciò a usare una dieta in larga parte vegetale e integrale per far
regredire le cardiopatie avanzate in uno studio che ebbe inizio nel 1985,
scoprì che il dolore cronico al torace (noto anche come angina) di norma
scompariva entro una o due settimane.
Confrontiamo questo dato con un farmaco contro l’angina
come la ranolazina (commercializzato con il nome Ranexa), approvato
dall’Agenzia per gli alimenti e i medicinali degli Stati Uniti (Food and Drug
Administration, FDA) nel 2006.
Un esperimento clinico intrapreso per stabilirne
l’efficacia aveva somministrato a caso il Ranexa o un placebo a 565 pazienti.
Il “gruppo Ranexa” aveva sperimentato una “riduzione statisticamente
significativa” degli episodi di angina nell’arco di sei settimane. Un risultato
fantastico, vero? Ciò che si intende è che il gruppo Ranexa era passato da 4,5
a 3,5 episodi di angina alla settimana.
Non esattamente la soluzione rapida che tutti noi
auspicheremmo, vero?
Si aggiungano i normali effetti collaterali riportati
dalla casa produttrice, fra cui «vertigini, mal di testa, stitichezza e nausea»
(lo studio non specificava il tempo di insorgenza di questi sintomi) e si
otterrà la miglior risposta della medicina occidentale alla dieta vegetale e
integrale: interventi costosi con un effetto positivo limitato e un gran numero
di potenziali effetti collaterali.
Qualcuno forse penserà che non è corretto paragonare i
prodotti farmaceutici con la dieta vegetale e integrale, dal momento che i
farmaci sono chiamati a trattare i sintomi piuttosto che le cause a monte della
malattia.
Eppure, se c’è una cosa che dovrebbe deporre a favore dei
medicinali è proprio la rapidità dell’effetto. In effetti, l’unica funzione
utile che possono vantare è il “tempo di acquisto” per un paziente per il quale
un cambiamento di stile di vita e di dieta potrebbe arrivare troppo tardi.
Quando qualcuno viene portato al pronto soccorso in
barella dopo aver subito un infarto o un ictus, forse è meglio somministrargli
un trombolitico per sciogliere il coagulo, piuttosto che fargli un’endovena a
base di frullato di cavolo nero.
Ma eccezion fatta per le vere emergenze, la rapidità
della risposta della dieta vegetale e integrale è superiore a quella di
qualunque farmaco, in assenza degli effetti collaterali.
Ampiezza
Qual è l’ampiezza degli effetti di un simile intervento
nell’organismo? È in grado di migliorare un’ampia gamma di funzioni, oppure
agisce su un singolo parametro biologico, come la pressione sanguigna o il
profilo lipidico?
Verrebbe da pensare che un approccio standardizzato in
cui una sola strategia risolva un’ampia serie di condizioni patologiche possa
essere la soluzione ideale. Ma la scienza medica nutre profondi sospetti per
qualsiasi rimedio che si proponga come panacea (dal greco pan, ovvero “tutto”,
e akos, “rimedio”).
Per contro, i più apprezzati farmaci cinesi sono quelli
che trattano una grandissima varietà di disturbi. Nei primi anni Ottanta del
Novecento, alcuni decani della professione medica in Cina mi fecero conoscere
la loro tradizione secolare basata sull’uso medicinale delle erbe. Spesso
queste erbe vengono utilizzate in forma integra, di norma macerate nell’acqua,
e sovente utilizzate insieme a molti altri ingredienti.
La “regina” di queste erbe cinesi, la più prescritta e
consumata è il ginseng. Carlo Linneo, padre della moderna classificazione
scientifica di animali e vegetali, denominò il ginseng “Panax”, proprio perché
era a conoscenza dei suoi molteplici usi nella medicina tradizionale cinese.
Vi ricordate di Daniel Boone, il famoso pioniere
americano? Sapete cosa faceva nel selvaggio West col suo cappello alla Davy
Crockett e il fucile? Andava a caccia e metteva trappole, vero? Certo, Boone
fece la sua parte, quanto a far razzia di carne animale. Ma quando si trovò
sull’orlo della rovina finanziaria per il fallimento di alcuni affari
immobiliari negli anni Ottanta del Settecento, puntò dritto a dov’erano i
soldi: ginseng americano (nome scientifico Panax quinquefolius). Boone pagò i
nativi americani perché raccogliessero le radici, che inviò in Cina ricavandone
una fortuna.
Non fu l’unico ad arricchirsi grazie a quella pianta
medicinale: sappiamo che John Jacob Astor incassò cinquantacinquemila dollari
per il primo carico di ginseng inviato in Cina, una cifra che oggi corrisponde
a più di un milione di dollari.
Il motivo per cui i cinesi erano disposti a pagare tanto
per il ginseng, e i nativi americani sapevano esattamente dove raccoglierlo, è
che questa pianta fa bene alla salute in tanti modi diversi.
I Cherokee la usavano per alleviare le coliche, le
convulsioni, la dissenteria e il mal di testa. Altre tribù native americane
ritenevano che questa radice fosse utile a trattare l’indigestione,
l’inappetenza, l’affaticamento, la laringite difterica, i dolori mestruali e lo
shock. E se questa non è ampiezza!
La dieta vegetale e integrale riguarda così tanti
disturbi e malattie che ci si comincia a chiedere se non ci sia un’unica causa
patogena – l’alimentazione inadeguata – che si manifesti con migliaia di
sintomi diversi.
Invece che concentrare l’attenzione sulla causa a monte,
la medicina occidentale ha deciso di interessarsi esclusivamente dei sintomi
individuali, e di dare a ciascuno di essi il nome di una malattia. Del resto è
molto più redditizio identificare migliaia di diverse patologie, poi produrre e
vendere le relative terapie, piuttosto che considerare il quadro generale e
prescrivere un solo semplice rimedio che le cura tutte.
Ma questa non è considerata buona medicina.
Se siete colpiti dal gran numero di effetti positivi del
solo ginseng, rimarrete senza parole quando saprete dell’ampiezza dei risultati
della dieta vegetale e integrale.
Se è vero che il ginseng allevia un’ampia varietà di
sintomi, un’alimentazione adeguata tratta le cause primarie della malattia,
comprese quelle più disparate come il cancro, le malattie cardiovascolari (per
esempio arresto cardiaco, ictus e aterosclerosi), l’obesità, i disturbi
neurologici, il diabete, un’ampia gamma di malattie autoimmuni, e le malattie
delle ossa. Dalla pubblicazione di The China Study ho avuto notizie da lettori
che riferivano di altre patologie, quasi sempre non letali, alleviate o risolte
dalla dieta vegetale e integrale: tra queste varie tipologie di mal di testa
(incluse le emicranie), sofferenza intestinale, disturbi dell’occhio e
dell’orecchio, disturbi da stress, raffreddore e influenza, acne, disfunzione
erettile e dolore cronico.
Si tratta di una vastissima gamma di patologie
controllate a livello nutrizionale, anche se per ciascuna di queste malattie (o
gruppi di malattie), sarebbe utile effettuare ricerche più professionali per
documentare i meccanismi di questi effetti.
Le mie impressioni sull’impatto della dieta su alcune di
queste patologie (per esempio raffreddore e influenza, mal di testa, dolori di
vario tipo e condizioni di dolore cronico) si basano più su prove aneddotiche
che non su evidenze empiriche, verificate da esperti e pubblicate. Tuttavia, la
frequenza con cui ho sentito pazienti e medici affermare che adottare la dieta
vegetale e integrale risolve simultaneamente tutti questi problemi di salute
inizia a convincermi che il sistema funziona per la stragrande maggioranza
delle persone, nella quasi totalità dei casi.
In passato soffrivo io stesso di emicrania e di dolori di
tipo artritico, ma questi disturbi sono scomparsi quando ho adottato pienamente
la dieta vegetale e integrale.
Proviamo a fare un esperimento mentale. Qualcuno a cui
tenete vi dice di avere una malattia cronica (prendetene una a scelta dalla
lista precedente) e che il medico gli ha prospettato due possibili terapie.
La terapia numero uno ridurrebbe leggermente la gravità
di un singolo sintomo ma non migliorerebbe le possibilità di essere curati
della malattia (né di vivere più a lungo) e prospetterebbe un’ampia gamma di
dannosi effetti collaterali (ovviamente il medico curante prescriverebbe altri
medicinali per contrastare gli effetti indesiderati, e poi altri ancora per
neutralizzare gli effetti collaterali di tutte le relative interazioni, e così
via).
La terapia numero due risolverebbe con relativa rapidità
la causa originaria della malattia, ponendo così fine a tutti i sintomi e
aumentando l’aspettativa e la qualità della vita della persona a voi cara. Gli
effetti collaterali comprenderebbero il raggiungimento del peso ideale,
l’aumento di energia, un aspetto migliore, un maggior benessere e
contribuirebbero anche a preservare l’ambiente e a rallentare il riscaldamento
globale.
Quale terapia consigliereste a chi vi è caro?
Per l’establishment medico questo esperimento mentale è
totalmente assurdo.
La quasi totalità della ricerca in campo medico prende in
considerazione soltanto gli effetti strettamente specifici di un singolo
fattore (che si tratti di un farmaco, una vitamina, un minerale o una procedura
come un intervento chirurgico) su un singolo sintomo o sistema. Qualunque altra
cosa – come considerare macrodifferenze quali lo stile di vita e la dieta – è
ritenuta troppo complessa e caotica per essere affidabile.
Profondità
Dunque, finora abbiamo considerato il tempo necessario
perché l’alimentazione incida sulle funzioni dell’organismo (rapidità) e il
numero di sistemi su cui si ripercuote (ampiezza).
C’è un ultimo fattore cruciale per valutare l’efficacia
di un intervento nel campo della salute: la portata, ossia il peso
dell’effetto. Un’altra parola per questo criterio è profondità.
A parità di condizioni, preferireste sottoporvi a una
terapia che producesse un miglioramento lieve o enorme del vostro benessere?
L’alimentazione a base vegetale tende a generare effetti
di portata straordinaria. Ebbi occasione di verificarlo la prima volta in una
serie di esperimenti condotti in India di cui lessi un resoconto e che in
seguito riprodussi alla Cornell University con i miei studenti dei corsi
post-laurea.
I ricercatori esponevano gli animali da laboratorio
(ratti) a una potente sostanza cancerogena, e poi somministravano a un gruppo
di cavie una dieta costituita per il 20% da proteine animali, mentre la dieta
dell’altro gruppo ne conteneva soltanto in percentuale del 5%. Ogni singolo
animale del gruppo al 20% aveva poi sviluppato un cancro o lesioni
precancerose, mentre non una cavia del gruppo al 5% aveva riportato
conseguenze: il 100% contro lo 0%.
Questo tipo di risultato è davvero raro negli studi
biologici che presentano un gran numero di variabili disorientanti, eppure
questo era stato il nostro risultato finale. Ripetemmo l’esperimento con
diverse modalità perché in un primo momento ci fu difficile crederci, ma
l’esito fu sempre lo stesso, esperimento dopo esperimento. Impossibile una
maggiore profondità.
Forse starete pensando: “Un momento. Solo perché la dieta
ha questo tipo di effetto sul cancro nei ratti, ciò non significa che possa
migliorare nella stessa misura la salute umana”. Gli studi animali sono una
cosa a parte. E cosa ne dite di uno studio condotto su individui gravemente
malati cui viene cambiata drasticamente la dieta? Un intervento nutrizionale
può produrre effetti così profondi?
Negli anni Quaranta e Cinquanta (quasi settant’anni fa!),
due cardiologi, Lester Morrison e John Gofman, intrapresero una ricerca per
stabilire gli effetti della dieta sulle cardiopatie in soggetti che avevano già
subito un infarto. I due medici fecero seguire a questi pazienti una dieta a
minor contenuto di grassi, colesterolo e cibi di origine animale,
un’alimentazione che ridusse in modo eclatante le recidive delle cardiopatie.
Nathan Pritikin fece lo stesso negli anni Sessanta e
Settanta.
Poi, negli anni Ottanta e Novanta, i due medici Esselstyn
e Dean Ornish si proposero di scoprire qualcosa di più. Lavorando
separatamente, entrambi dimostrarono che una dieta a base vegetale e ad alto
contenuto di carboidrati era in grado di tenere sotto controllo e persino di
far regredire le cardiopatie avanzate.
Abbiamo accennato allo straordinario lavoro di Esselstyn
nel capitolo dedicato alla rapidità, e potrete trovare maggiori informazioni
sulle sue ricerche e su quelle degli altri scienziati in The China Study. Ora
però soffermiamoci ancora sulle scoperte di Esselstyn in termini di profondità.
LO STUDIO DI ESSELSTYN SULLA REGRESSIONE DELLE
CARDIOPATIE
Nel 1985, Esselstyn reclutò pazienti affetti da
cardiopatie avanzate ma non a rischio immediato di morte per un esperimento
clinico che intendeva scoprire se fosse possibile far regredire le malattie
cardiache con la dieta.
Tramite angiogrammi verificò la gravità delle patologie
alle coronarie, così da accertare che la progressione della malattia fosse in
stadio avanzato. L’unico altro requisito per essere ammessi a partecipare
all’esperimento era la disponibilità ad attuare i cambiamenti dietetici
proposti: sostanzialmente, una dieta vegetale e integrale.
Il dottor Esselstyn riferì formalmente i risultati dello
studio a distanza di cinque e dodici anni.
Negli otto anni precedenti all’esperimento, i suoi
diciotto soggetti avevano subito quarantanove eventi coronarici (per esempio
infarti, angioplastiche, interventi di bypass), ma durante i dodici anni
successivi all’adozione della dieta si registrò un solo evento riguardante un
paziente che non si era attenuto alla dieta.
Dopo questo periodo, Esselstyn continuò a seguire i
pazienti in modo informale, e ora, ventisei anni dopo, solo cinque di loro non
sono più in vita. I cinque pazienti deceduti non morirono per insufficienza
cardiaca ma per altre cause (nel 1985 l’età media dei soggetti corrispondeva a
56 anni, ovvero 83 nel 2012, perciò si tratta di un risultato davvero
imprevisto), mentre tutti gli altri ancora in vita non presentano sintomi di
disturbi cardiaci.
Nei novantasei mesi precedenti all’intervento
nutrizionale i soggetti avevano subito quarantanove eventi cardiovascolari, e
zero eventi nei circa trecentododici mesi successivi. Si tratta di un risultato
di vitale importanza che ha portata maggiore di qualsiasi beneficio sanitario
di cui sia mai venuto a conoscenza: in medicina non c’è nient’altro che si
avvicini a questo effetto.
Confrontate questi dati con quelli relativi al farmaco
Ranexa, di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo, in termini di
riduzione del numero di decessi per cardiopatia o altre cause. Un vastissimo
studio di monitoraggio su seimilacinquecento pazienti che assumevano il Ranexa
ha riscontrato miglioramenti di poco conto in alcuni parametri, ma il verdetto
totale, riportato nel «JAMA» afferma: «Non si è riscontrata alcuna differenza
nella mortalità totale fra i pazienti curati con la ranolazina e quelli cui si
è somministrato un placebo».
RILEVANZA STATISTICA CONTRO RILEVANZA EFFETTIVA
La profondità di un effetto non è importante solo per la
persona che ne fa esperienza: la profondità che prevediamo di verificare in uno
studio sperimentale determina il numero di soggetti necessari alla ricerca,
così da valutare con ogni grado di sicurezza se i risultati siano reali, o se
rappresentino un fatterello senza importanza.
In altre parole: minore è la differenza fra due
condizioni (per esempio gruppo sottoposto a esperimento e gruppo di controllo,
oppure terapia A e terapia B), maggiore è il numero di soggetti necessari per
dimostrare che quella differenza è reale, e non dovuta a casualità. In un caso
come quello del farmaco Ranexa, in cui gli episodi di angina sono passati da
4,5 a 3,5 a settimana, sono necessarie parecchie centinaia di partecipanti allo
studio per dimostrare che il risultato non può essere dovuto al caso, ovvero
che è “statisticamente rilevante”, come si dice in gergo scientifico.
Probabilmente vi starete interrogando sulla portata dello
studio di Esselstyn, dal momento che il gruppo sottoposto all’esperimento era
così ristretto. Diciotto soggetti sono un campione sufficiente a garantire
rilevanza statistica?
Per rispondere a questa domanda, immaginiamo un esito
differente per l’esperimento di cui sopra. Supponiamo che il gruppo B, ossia il
gruppo di controllo, mediamente subisca ancora da quattro a cinque eventi
cardiaci a settimana. Il gruppo A, ossia quello che si avvale della nuova
terapia, non registra più alcun evento: nessuno, zero assoluto. Quando
l’effetto è così grande non sono necessarie centinaia di dati. La probabilità
che risultati così coerenti e profondi siano dovuti al caso è praticamente pari
a zero.
Se dedicate del tempo ad analizzare le ricerche
scientifiche, incontrerete spesso il concetto di rilevanza statistica. Si
tratta di un criterio molto utile, perché impedisce di trarre conclusioni sulla
base di dati insufficienti.
Se per esempio lanciamo una volta una monetina e
otteniamo testa, non potremo affermare che quella particolare moneta cade
sempre mostrando quel lato. Non si può distinguere un modello costante nella
confusa casualità propria di un gesto come lanciare una monetina sulla base di
un singolo lancio, e nemmeno sulla base di cinque o sei.
Il problema è che molti ricercatori mettono la rilevanza
statistica al di sopra di un criterio altrettanto importante, ovvero la
rilevanza effettiva, quella che risponde alle domande: «Per chi è importante?
Perché questo risultato conta?».
Siamo davvero così entusiasti di poter ridurre gli
attacchi di angina da 4,5 a 3,5 a settimana? Non per minimizzare le sofferenze
dei pazienti cardiopatici, ma non dovremmo investire il nostro tempo e il
nostro denaro alla ricerca di terapie che migliorano davvero la vita delle
persone, invece che limitarsi a mantenere e gestire il loro stato patologico?
VERSO UNA MIGLIORE SOLUZIONE PER LA SALUTE
Sulla base dell’evidenza scientifica che ho finora
esposto in questo capitolo, probabilmente penserete che le migliori facoltà di
medicina del Paese si apprestino a fare dell’alimentazione a base vegetale la
principale scienza “medica” del futuro.
Gran parte della formazione medico-scientifica e dei
finanziamenti degli NIH dovrebbe essere dedicata alla formazione e alla ricerca
nutrizionale, così da scoprire come meglio consigliare i pazienti in fatto di
alimentazione e creare ambienti in cui mangiar sano sia più facile che seguire
una dieta sbagliata.
Invece non sta capitando niente di tutto questo.
Certo, a livello puramente verbale l’establishment medico
è favorevole a una sana alimentazione (termine intenzionalmente vago che non
significa niente nel dibattito pubblico), ma in realtà non prende sul serio la
dieta come primo e principale strumento per combattere e prevenire la malattia.
L’importanza di una dieta a base di alimenti vegetali
naturali (specialmente quelli ad alto contenuto di antiossidanti e di fibre) è
stata pienamente accettata soltanto dalla medicina alternativa e preventiva,
mentre all’interno dell’establishment l’idea che la nutrizione possa incidere
su malattie gravi come il cancro è ritenuta del tutto strampalata, malgrado il fatto
che quasi nessuno dei professionisti che negano sistematicamente il potenziale
della nutrizione disponga di una formazione specifica in questo campo.
La ricerca indica che questo tipo di alimentazione è
davvero il modo migliore di affrontare la malattia. Meglio dei farmaci da
prescrizione e della chirurgia, e meglio di qualsiasi cosa la medicina
ufficiale abbia in arsenale nelle varie “guerre” contro il cancro, l’ictus, le
cardiopatie, la sclerosi multipla e così via.
Forse è il momento di smettere di dichiarare guerra a noi
stessi con farmaci tossici e interventi chirurgici a rischio, e di trattarci
bene consumando tutti quei cibi che permettono di crescere e mantenere sane e
vitali le persone e le culture di cui fanno parte.
Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo modo di considerare
parole come salute e medicina.
La salute è qualcosa di più di un paio di formule
superficiali come «segui una dieta sana», o «usa l’alcol con moderazione»,
oppure «usa le scale, non l’ascensore ». Ovviamente c’è del merito in ognuna di
queste affermazioni, ma nella sostanza escludono la possibilità di un vero
cambiamento: si tratta di asserzioni politicamente corrette ma prive di
specifica consistenza.
Invece di proferire ottimistiche banalità che non portano
a niente, dobbiamo fare della nutrizione l’elemento centrale del nostro sistema
sanitario. Inoltre, dobbiamo allontanarci dalla mentalità della “dieta” che
promuove sprazzi eroici e insostenibili di alimentazione sana: invece che
“metterci a dieta” occorre cambiare stile di vita e includere un’alimentazione
che promuove la salute. Chi adotta la dieta vegetale e integrale scopre che la
maggior parte dei suoi problemi di salute era causata o pesantemente aggravata
dal precedente modo di mangiare e che si risolve in modo rapido e naturale non
appena l’organismo comincia a ricevere il carburante adatto.
È come qualcuno che si percuota tre volte al giorno la
testa con un martello e dichiari di non riuscire a trovare niente contro il mal
di testa: forse la cosa da fare è posare il martello!
Ingenuamente credevo che, una volta visionati i dati in
mio possesso, l’intera comunità scientifica e medica sarebbe stata in grado di
cogliere l’evidente sensatezza di questo approccio.
Ma quando cominciai a sostenere che la nutrizione
dev’essere il centro del sistema sanitario, mi accorsi di quanto sbagliavo. Uno
dei fenomeni più illuminanti è stata la ferocia con la quale sono stato
attaccato per aver divulgato i risultati della mia ricerca e le relative
implicazioni: a volte anche da parte di colleghi professionisti e ricercatori.
Per quanto oggi mi possa apparire sciocco, quando ho
intrapreso questo percorso non immaginavo che le idee contenute in questo
capitolo mi avrebbero marchiato come eretico compromettendo il finanziamento delle
mie ricerche e la mia carriera.
Fortunatamente per me, questi effetti si sono rivelati
largamente inefficaci.
Ma prima di passare alle grandi questioni che stanno
dietro a quegli attacchi, vorrei condividere con voi il mio percorso eretico.
Dopo tutto, su alcune di queste idee ho avuto un vantaggio iniziale di
cinquant’anni. Vi metterò al corrente, prima di gettarci nella mischia.
Il Trionfo del Riduzionismo - Estratto da "Whole -
Vegetale e Integrale"
«Noi non vediamo le cose come sono,
le vediamo come siamo».
Talmud
Una vecchia storia: sei ciechi devono descrivere un
elefante. Ognuno tocca una parte diversa del corpo: zampa, zanna, proboscide,
coda, orecchio e pancia.
Come è facile prevedere, ognuno fornisce un giudizio
completamente diverso: pilastro, tubo, ramo, fune, ventaglio e muro. Litigano
furiosamente e ognuno è sicuro che la propria esperienza sia quella giusta.
Non conosco una metafora migliore per evidenziare il
grosso problema dell’attuale ricerca scientifica, salvo che invece dei sei
ciechi, la scienza moderna incarica sessantamila ricercatori di esaminare
l’elefante, ognuno attraverso una lente diversa.
Ovviamente questo modo di procedere di per sé non ha
niente di sbagliato. Si potrebbe sostenere che i sei uomini, ognuno concentrato
su una singola parte, insieme producono una descrizione più ricca e dettagliata
di quella che una sola persona potrebbe fornire limitandosi a girare intorno
all’animale nella sua interezza e a osservarlo. Analogamente, pensate al
livello di conoscenze dettagliate che sessantamila scienziati possono ricavare
se possono dedicarsi allo studio di componenti così infinitesimali.
Il problema si presenta solo quando, come nella parabola,
i punti di vista individuali vengono erroneamente presentati come se si
descrivesse la verità nella sua interezza. Quando il fuoco del fascio laser
viene preso per una panoramica globale. Quando i sei uomini o i sessantamila
ricercatori non si parlano né riconoscono che l’obiettivo generale
dell’esplorazione è percepire e comprendere l’intero elefante. Quando partono
dal presupposto che qualunque punto di vista che metta in dubbio il proprio sia
sbagliato e basta.
In questo capitolo prenderemo in esame i due paradigmi
opposti nel campo della scienza e della medicina: il riduzionismo e l’olismo.
Vedremo che il trionfo del primo sul secondo negli ultimi
secoli della nostra storia – quando gli strumenti riduzionisti avrebbero dovuto
essere messi al servizio della conoscenza olistica – ha invece seriamente
pregiudicato la nostra capacità di comprendere il mondo.
I LIMITI DEI PARADIGMI
Nel 2005, in un discorso di conferimento delle lauree, lo
scomparso scrittore David Foster Wallace raccontò una storia che coglie in modo
perfetto la funzione dei paradigmi:
«Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino
all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta,
fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I
due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e poi uno dei due guarda
l’altro e gli chiede: “Ma cosa diavolo è l’acqua?”»
Nel Capitolo 3 abbiamo parlato dei paradigmi per provare
a spiegare il modo in cui molti dei miei colleghi hanno reagito ai nostri
risultati scientifici sulle proteine animali e sui benefici per la salute di
una dieta vegetale e integrale.
Ho paragonato la mia esperienza a quella del pesce che
esce dall’acqua e incontra per la prima volta l’aria: poiché mi sono trovato al
di fuori del paradigma scientifico dominante, sono riuscito a comprendere
meglio dove erano i suoi limiti.
Ciò che in quel capitolo non abbiamo considerato era lo
scopo dei paradigmi, i loro vantaggi e punti deboli. Inizialmente un paradigma
è un modo utile per elaborare le conoscenze e mettere alla prova le teorie.
Infatti penso di poter affermare che non ci sarebbe possibile vivere senza
paradigmi, e sicuramente non potremmo progredire nella conoscenza
dell’universo.
Nel suo senso più ampio, un paradigma è un filtro mentale
che delimita ciò che siamo in grado di vedere in ogni momento.
I filtri mentali sono essenziali: senza il sistema di
attivazione reticolare, che ha sede nel cervello, saremmo sopraffatti dagli
stimoli e incapaci di rispondere a quelli importanti. Senza la capacità di
concentrare l’attenzione su una sola cosa ed escludere le distrazioni, nessuno
di noi sarebbe in grado di concludere granché. E nella scienza, senza i veri e
propri filtri dei microscopi e dei telescopi sapremmo assai poco dello spazio
all’interno e all’esterno del nostro corpo.
I filtri – che si tratti di quelli mentali o di quelli
reali – diventano problematici solo quando ci si dimentica di loro e si pensa
che ciò che vediamo sia tutta la realtà, invece di una sua porzione molto
sottile.
I paradigmi diventano prigioni solo quando smettiamo di
riconoscerli come ciò che sono: quando pensiamo che non esista altro che
l’acqua, al punto di non attribuirle neppure un nome. In un mondo improntato
dal paradigma dell’acqua, chiunque suggerisca l’esistenza della “non acqua” è
automaticamente un eretico, un folle o un pagliaccio.
Perciò immergiamoci nelle tumultuose acque della
filosofia e cerchiamo di inquadrare i due opposti paradigmi che ho introdotto
qualche pagina fa: il riduzionismo e l’olismo.
RIDUZIONISMO CONTRO OLISMO
Se siete riduzionisti, siete convinti che ogni cosa al
mondo possa essere compresa quando se ne comprendono tutte le componenti. Un
olista, invece, crede che l’intero possa essere più grande della somma delle
sue parti: ecco dunque l’intero dibattito ridotto ai minimi termini.
E tuttavia questa discussione infuria fra filosofi,
teologi e scienziati sin dall’antichità.
Si tratta solo di filosofia accademica, come discutere il
sesso degli angeli? Non esattamente. Come vedremo, scegliere un paradigma
invece di un altro porta a un approccio radicalmente diverso nei confronti
della scienza, della medicina, del commercio, della politica e della vita
stessa.
Nel Capitolo 5 mostrerò l’influsso dei diversi approcci
sul nostro concetto di alimentazione. Per il momento consideriamo la battaglia
fra olismo e riduzionismo in una prospettiva più ampia, ed esploriamo come il
secondo abbia preso il sopravvento sul primo.
Comincerò col dire che si tratta di una battaglia che in
realtà non ha ragione di esistere: non c’è conflitto intrinseco fra le tecniche
riduzioniste della scienza e una prospettiva olistica globale.
Di per sé il riduzionismo non è niente di negativo. Al
contrario, la ricerca riduzionista è stata portatrice di alcuni dei più
importanti progressi degli ultimi secoli. Dall’anatomia alla fisica,
dall’astronomia alla biologia e alla geologia, grazie alle conquiste
scientifiche dovute alla sperimentazione rigorosa e mirata del riduzionismo
abbiamo raggiunto una comprensione più profonda dell’universo, e una maggior
capacità di interagire positivamente con esso.
L’olismo non si oppone al riduzionismo, semmai lo
comprende, proprio come ogni intero comprende le sue parti.
Non penso sia necessario annullare due millenni di
progresso scientifico e tornare ai tempi in cui gli esseri umani adoravano la
natura senza desiderare di comprenderne i meccanismi. Penso che sia
meraviglioso avere sei ciechi che studiano il problema dell’elefante, ma vorrei
anche che ci fosse qualcuno per dargli qualche dritta sull’intero animale.
Sarete perplessi per il mio uso del termine wholism [da
whole, intero, integro, che è anche il titolo originale di questo libro;
N.d.T.] invece del più frequente holism senza l’iniziale “w”, ma quest’ultima
grafia rimanda al termine holy [santo, sacro; N.d.T.], e di qui forse il
problema, vista la sua valenza religiosa.
Molti scienziati sono infatti ostili alla religione così
come i fondamentalisti religiosi lo sono alla scienza. Quando incontrano la
parola holistic pensano a un sistema di credenze approssimativo e campato in
aria che non ha collocazione in una rigorosa esplorazione del “mondo reale”.
Paradossalmente questo rifiuto dell’olismo da parte degli
scienziati è il massimo del dogmatismo, un atteggiamento fondamentalista che
nega la possibilità di qualunque verità diversa da quella consentita dal
riduzionismo. Mi sembra già di vedere i miei colleghi scienziati rabbrividire
all’idea di essere fra i più truci fondamentalisti senza saperlo!
RIDUZIONISMO: UNA PANORAMICA STORICA
Sin dagli inizi dell’esistenza, gli esseri umani sono
sempre stati mossi da un desiderio insaziabile di sapere di più sul mondo e su
se stessi.
Da dove veniamo?
Che cosa sono le emozioni che proviamo
e come possiamo affrontarle?
Dove siamo diretti?
Qual è il significato della vita?
Nell’antica Grecia – culla di buona parte del pensiero
occidentale – la scienza e la teologia erano strettamente interconnesse e
occupavano un terreno in larga misura comune. Entrambe si interessavano delle
grandi questioni di tutti i tempi che riguardavano il significato
dell’esistenza umana e il mistero dei segreti della natura. Lavoravano mano
nella mano, con la scienza che forniva la materia prima – le osservazioni – e
la teologia che le elaborava formulando teorie globali o grandiose narrazioni
sull’universo.
Entrambe le discipline sono lenti attraverso le quali
interpretare la realtà e interagire con essa, in modo molto simile a un
microscopio e a un binocolo: entrambi ci rivelano più cose sul mondo di quelle
che riusciamo a vedere a occhio nudo, ma le informazioni che ricaviamo da ciascuno
dei due possono divergere notevolmente.
Teologi/scienziati greci come Pitagora, Socrate,
Aristotele o Platone non avrebbero gradito l’idea di scegliere uno strumento e
abbandonare l’altro. Questi filosofi (letteralmente “coloro che amano la
sapienza”) scrivevano e parlavano di cibo e salute, giustizia, diritti delle
donne, letteratura e teologia con la stessa naturalezza e la stessa passione e
convinzione con cui argomentavano di geologia, fisica e matematica.
In un certo momento della storia – non sono uno storico,
perciò lascerò i dettagli a chi ne ha competenza – la scienza e la teologia
hanno intrapreso percorsi divergenti, con conseguente impoverimento di
entrambe.
Gli esponenti del clero attribuirono a determinate
interpretazioni dell’universo il valore di rigidi dogmi, con il risultato che
qualsiasi dubbio nei confronti di queste concezioni costituiva eresia. La
scienza si ritirò in Occidente, mentre quelle che erano state affermazioni
scientifiche perfettamente logiche e basate su fatti osservabili (come
sostenere che la Terra fosse il centro dell’universo nell’astronomia tolemaica)
vennero trasformate e distorte in princìpi di fede immutabili.
Da quel momento in poi l’osservazione diretta della
realtà venne non a torto considerata un’attività pericolosa: che fare infatti,
se si osservava qualcosa che contraddiceva la teologia dominante?
Solo intorno alla seconda metà del XIV secolo la scienza
cominciò a riemergere definendo l’avvento di una nuova era, il Rinascimento,
che condusse a uno scontro fra il punto di vista della fede e quello della
ragione.
Gli studiosi riscoprirono i classici greci e si sentirono
ispirati a perseguirne i metodi di osservazione, invece di rimanere aggrappati
a conclusioni fideistiche. Copernico (1473-1543) sfidò il dogma teologico
affermando che il Sole, e non la Terra, occupava il centro dell’universo
conosciuto. Galileo (1564-1642) inventò il telescopio e dimostrò che Copernico
aveva ragione.
Nei trecento anni che seguirono (1600-1900) molti
studiosi e scienziati eminenti e coraggiosi raccolsero osservazioni che posero
le basi per una supremazia dei fatti scientifici sulla fede religiosa, almeno
nella mente di molti. Ci fu un fiorire del pensiero e dell’osservazione razionale
da una prospettiva umana, con conseguenze utili non meno che illuminanti.
Ma questo nuovo umanesimo, che si era conquistato a
fatica una rispettabilità contro la dogmaticità della Chiesa, divenne ben più
intollerante nei confronti della teologia dei suoi antenati della Grecia
classica.
Invece di cercare una collaborazione con i teologi, gli
scienziati cercarono di interporre una distanza sempre maggiore fra i propri
princìpi e i propri intenti e le “superstizioni” non fondate su fatti
osservabili. Queste non comprendevano solo la religione, ma qualsiasi idea che
non aderisse alla visione scientifica, la cui verità era perseguibile solo
scomponendo il mondo osservabile nel maggior numero possibile di minuscole
parti.
In breve: riduzionismo.
Benché ciò che noi esseri umani possiamo osservare sia
cambiato e aumentato nel corso del tempo, quella convinzione di fondo sulla
verità è rimasta la stessa. Ogni nuovo progresso tecnologico ci permette solo
di frazionare il mondo in porzioni sempre più piccole.
La storia degli ultimi duecento anni ha assistito
all’inesorabile marcia del riduzionismo in tutti gli aspetti della vita, dalla
scienza alla nutrizione, alla formazione (pensate a tutte le “materie” di
studio che vengono insegnate a compartimenti stagni), all’economia (si pensi
alla microeconomia in opposizione alla macroeconomia) e perfino alla psiche
umana (ridotta a una rete di nervi e circuiti cerebrali).
CIÒ CHE IL RIDUZIONISMO NON PUÒ SPIEGARE
Prendendo in esame il nostro attuale approccio alla
conoscenza, si direbbe che il riduzionismo, sotto la maschera della scienza,
abbia vinto, ma a caro prezzo per la nostra comprensione del mondo.
Rifiutando il controllo religioso della scienza,
rinunciamo anche alle utili prospettive offerte dalla teologia: un modo di
guardare al mondo come a un tutto fondamentalmente connesso. Una disponibilità
ad accettare che ci siano cose che forse non potremo mai comprendere fino in
fondo, e che possiamo solo limitarci a osservare.
I semplici fatti “scientifici” non possono spiegare
pienamente se non una minuscola parte delle profonde e complesse emozioni che
proviamo in alcuni momenti speciali della vita, o quando ci troviamo di fronte
alle straordinarie meraviglie del mondo.
I fatti potrebbero mai spiegare appieno l’ispirazione e
il senso di riverenza che proviamo quando ascoltiamo un bel brano musicale,
oppure quando ci interroghiamo sul principio e sulla fine dell’universo, o
ancora quando ammiriamo negli altri il talento e la forza delle emozioni?
Descrivere l’attività di un enzima, la trasmissione degli impulsi nervosi o un
picco nel rilascio ormonale riesce davvero a cogliere l’esperienza di
quell’ammirazione e di quelle emozioni?
Si tratta di cose incredibilmente complesse, che sono al
di là degli strumenti dell’indagine oggettiva materiale.
Con il suo teorema di incompletezza (pubblicato nel
1931), il matematico austriaco Kurt Gödel dimostrò la futilità dell’utilizzo di
tecniche riduzioniste per ricostruire un sistema complesso. Provò infatti
matematicamente che nessun sistema complesso può essere conosciuto nella sua
interezza e che qualsiasi sistema che sia conoscibile nella sua interezza è
soltanto un sottoinsieme di un sistema più grande.
In altre parole, la scienza non potrà mai descrivere
completamente l’universo.
Indipendentemente dalla potenza della lente o del
computer che utilizziamo, non saremo mai in grado di ricostruire con
accuratezza assoluta le reazioni chimiche che si verificano quando facciamo una
cosa semplice e quotidiana come osservare un tramonto.
Non è solo questione di migliori strumenti tecnici e
maggior potenza informatica:
è come se la realtà stessa si opponesse ad ogni
tentativo.
Nello stesso periodo in cui Gödel scopriva i limiti della
matematica nel descrivere la realtà numerica, i fisici delle particelle
comprendevano che anche i loro avanzati strumenti di percezione erano
inadeguati a definire con esattezza la realtà fisica. La luce poteva essere una
particella o un’onda, a seconda di come la si osservava. La fisica quantistica
si sottraeva completamente all’oggettività, nella sua descrizione delle
particelle subatomiche in termini di probabilità anziché di realtà. Werner
Heisenberg dimostrò che in un dato momento è possibile osservare solo la
posizione o la velocità di un elettrone, ma mai entrambe.
Il riduzionismo – ossia proprio la ricerca di questo tipo
di rivelazione totale – è straordinariamente utile, ma più conoscenze
accumuliamo, e più ci risulta chiaro che questo approccio è inadeguato al
compito di comprendere l’universo.
IL “MODELLO LEONARDO”
Il nostro modo di praticare la scienza è dunque il
risultato di un rifiuto post-rinascimentale nei confronti di una visione del
mondo più olistica e condivisa con la religione. Tuttavia, nemmeno ritornare
alla precedente divisione del lavoro fra scienziati e teologi non è la risposta
giusta.
Per trovare un modello utile nella realtà odierna – il
modello di uno scienziato che ricorre a metodi riduzionisti all’interno di un
quadro di riferimento olistico – dobbiamo tornare al Rinascimento stesso.
Forse non c’è alcuno nella storia che incarni meglio
l’integrazione fra scienza e olismo del massimo rappresentante del
Rinascimento, Leonardo da Vinci (1452-1519).
La sua importanza e la sua fama non si devono solo al suo
enorme talento artistico, ma anche alle sue eccezionali doti di scienziato. I
suoi interessi in campo scientifico erano sorprendentemente vasti, e spaziavano
dal dato biologico (anatomia, zoologia e botanica) a quello geofisico (geologia,
ottica, aerodinamica e idrodinamica). I traguardi raggiunti da Leonardo sono
straordinari anche per i parametri attuali, senza dimenticare che le sue opere
risalgono a più di cinquecento anni fa!
Lo studioso provava un profondo interesse per la realtà e
i prodigi della natura che considerava un tutto ampio e dinamico.
I soggetti della sua arte ispirata sono quasi più
mirabili della realtà, e riflettono, almeno ai miei occhi, la sua idea di
umanità, anch’essa vista come un tutto vasto e dinamico. Da Vinci nutriva anche
una profonda curiosità per i piccoli dettagli in grado di spiegare i prodigi
accessibili alla percezione umana che erano oggetto dei suoi dipinti.
Questo è facilmente riscontrabile sia nei suoi disegni di
strutture anatomiche nel mondo della biologia, sia nelle raffinate
rappresentazioni delle strutture meccaniche appartenenti alla fisica. Realizzò
disegni sorprendentemente dettagliati di anatomia umana – in cui, con le parole
di un suo biografo, prestava «attenzione alle forme di organi anche molto
piccoli, capillari e ogni parte nascosta dello scheletro».
Di lui si dice addirittura che sia stato il primo nel
mondo moderno a introdurre l’idea di una sperimentazione controllata – il concetto
alla base dell’indagine scientifica – e per questo molti lo considerano il
Padre della scienza. Probabilmente assai più di qualsiasi luminare accademico
del tempo, Leonardo riconosceva la relazione fra l’intero e le sue parti.
Di lui si può certamente dire che fosse un eclettico,
vista la portata eccezionale del suo talento artistico, umanistico e
scientifico. Ma più rilevante dei suoi specifici traguardi, ai fini di questo
libro, è il suo sapere, che promosse e sostenne un nuovo modo di pensare: una
sintesi del tutto e delle sue parti. Leonardo abbracciava l’ampiezza e la
profondità del pensiero, e dirigeva lo sguardo sia al singolo dato fornito
dalla scienza, sia all’estasi umana che si prova quando tutte le parti, quelle
note come quelle ancora ignote, agiscono in sinfonia per diventare l’intero.
Il contributo di Leonardo alla conoscenza dell’universo è
profondo e durevole proprio grazie a questa integrazione.
Egli aveva compreso che, per progredire, l’olismo aveva
bisogno del riduzionismo, e che quest’ultimo a sua volta non poteva fare a meno
dell’olismo per non perdere rilevanza: sapeva che quando si estrapola un
elemento da un contesto per studiarlo in modo più approfondito o misurarlo con
maggiore esattezza, si rischia di perdere più di quanto si guadagni.
L’“INTERO” NELL’OLISMO
Il filosofo e statista sudafricano Jan Smuts, cui si
attribuisce la creazione del termine olismo (holism senza “w”), scrisse che la
realtà consiste in un «grande intero» costituito da «piccoli centri naturali di
interezza».
Nel mio lavoro, l’organismo è il grande intero, e il
processo mediante il quale il corpo digerisce il cibo è un centro minore di
interezza al suo interno (l’alimentazione è solo una delle prospettive
possibili sull’interezza del corpo).
Questo concetto è applicabile anche all’essere umano, cui
ci si può riferire come a un piccolo centro di interezza all’interno del grande
intero della biosfera del pianeta Terra, oppure a una singola cellula umana,
intesa come un grande intero all’interno del quale i mitocondri, il DNA e altri
corpuscoli che forse avrete studiato a scuola nell’ora di biologia sono piccoli
centri naturali che rappresentano a loro volta un intero a sé. Si può
proseguire in entrambe le direzioni fino a dove l’osservazione e poi l’immaginazione
ci possono condurre. Dall’universo macrocosmico fino a quelli microcosmici, in
termini filosofici c’è una gerarchia di interi, in cui ognuno contiene parti
che a loro volta sono interi a sé.
In questo libro tratterò solo alcuni temi selezionati di
biologia: l’espressione genetica, il metabolismo intracellulare e la
nutrizione.
Ognuno di essi è, in sé e per sé, un sistema
incomprensibilmente complesso.
E tuttavia, personalmente ho qualche remora a dividere la
biologia in sistemi perché ciò implica confini che in realtà sono vaghi e
arbitrari.
Se è vero che un organo è fisicamente delimitato
all’interno del corpo, è altrettanto vero che esso comunica con gli altri
organi mediante la trasmissione nervosa, la comunicazione ormonale, e in altri
modi ancora. Ogni entità all’interno dell’organismo, fisica o metabolica che
sia, è al tempo stesso un intero e una parte.
Dobbiamo dividere gli interi nelle parti che li
compongono per poterli descrivere in modo efficace, ma anche così facendo non
dobbiamo dimenticare che queste divisioni sono in un certo senso arbitrarie.
Di fatto, pensare che il nostro sistema di classificazione
rappresenti una mappatura perfetta della realtà è un atteggiamento limitativo e
potenzialmente pericoloso.
La medicina occidentale, per esempio, considera il corpo
in chiave geografica: cura il fegato, il rene, il cuore, la rotula sinistra e
così via. La medicina cinese, invece, vede nel corpo una rete energetica. A un
paziente cui la medicina occidentale ha apposto l’etichetta di «cancro al
fegato», la medicina cinese potrebbe ad esempio diagnosticare «un eccesso di
yang nel meridiano triplice riscaldatore», una descrizione di uno squilibrio
energetico che si ripercuote sulle cosiddette zone calde del corpo, che si
collocano intorno alla testa, al torace e al bacino.
Quando i medici occidentali vennero per la prima volta in
contatto con questo sistema, la maggior parte di loro liquidò tutto quel
parlare di energia Chi e di meridiani come una superstizione opposta alla
“realtà oggettiva” di organi, ossa, fluidi e muscoli. Ma l’efficacia
documentata dell’agopuntura, che muove l’energia lungo i meridiani per curare
molti disturbi, attesta l’utilità del paradigma cinese.
Forse qualcuno potrebbe obiettare che le nostre limitate
conoscenze in campo biologico siano dovute alle carenze della tecnologia, non
del paradigma: sicuramente il sistema biologico è al di là della nostra
capacità di comprensione ora, ma prima o poi avremo una lente riduzionista
sufficientemente potente da comprenderne anche la complessità.
Per tornare alla nostra metafora dell’elefante, forse
potremmo aumentare il numero dei ciechi fino ad averne a disposizione milioni,
affidare a ciascuno di loro la comprensione di una parte microscopica
dell’elefante, e poi impiegare avanzati metodi computazionali e un
supercomputer gigante per mettere insieme tutti i dati.
Questa è di fatto la tesi del celebre futurologo Ray
Kurzweil, direttore degli studi ingegneristici di Google, che immagina che un
giorno saremo in grado di creare dal nulla un corpo umano, una volta che ne
avremo conosciuta ogni parte e avremo progettato supercomputer sufficientemente
potenti da consentircelo.
Personalmente, però, ritengo che questa prospettiva
pecchi di ingenuità, almeno per sistemi biologici come un corpo intero.
Consideriamo per esempio un enzima, una proteina
fondamentale in varie reazioni chimiche indispensabili al buon funzionamento
dell’organismo umano, come la digestione e la costruzione delle cellule. Con la
sperimentazione e l’osservazione possiamo discernere la composizione chimica,
le dimensioni, la forma e alcune delle funzioni dell’enzima. Ma la somma di
tutto questo equivale all’enzima stesso?
Secondo la scienza moderna la risposta è sì: essa infatti
considera l’enzima come un’entità distinta e caratterizzata da limiti
distinguibili, e il suo obiettivo è l’individuazione di tali limiti.
Se il mondo fosse davvero un accumulo di parti, ognuna
definita da limiti discernibili, forse in un futuro i tecnologi potrebbero
comprendere l’organismo umano osservandolo attraverso una lente riduzionista
azionata da supercomputer, da complessi modelli computazionali e altre
tecnologie.
Ma il mondo in realtà è molto più complesso.
L’enzima non è un’unità distinta e a sé stante: è una
parte integrante di un sistema più grande. Esiste in funzione del sistema, come
ogni altro elemento del sistema stesso: se mai un elemento cessa di agire in
funzione del sistema di cui fa parte, come nel caso della crescita
incontrollata del cancro, il sistema collassa, e può addirittura smettere di
funzionare.
Ogni parte infatti è un elemento integrante dello stesso
sistema, e tutte le parti sono interconnesse: nessuna è indipendente. E questo
significa che ogni parte influenza l’altra e ne è a sua volta influenzata.
Asportare o modificare una parte modifica l’insieme, allo stesso modo in cui
modificare l’insieme, come vedremo più avanti, esercita un impatto sulle parti.
In altre parole: quando una parte viene alterata, tutte le altre parti sono
costrette ad adattarsi per cercare di mantenere il sistema funzionante.
In questo scenario, i distinti confini che attribuiamo
alle singole parti svaniscono.
In termini semplici: all’interno del corpo umano non ci
sono “margini” fissi che separano una regione da un’altra qualsiasi. Ci sono
invece infinite connessioni e cambiamenti continui, ed è questo ininterrotto
flusso di cause ed effetti a rendere inutili i modelli di previsione
riduzionisti.
Questa mancanza di confini è importante perché significa
che ogni “parte” del corpo coinvolge ben più di quanto possiamo vedere quando
la esaminiamo, come nel riduzionismo, in forma isolata rispetto al sistema più
grande di cui fa parte.
Ciò che costituisce l’enzima, il modo in cui si presenta,
i suoi effetti e il motivo di quegli effetti: tutto questo rappresenta una
funzione di quel sistema più grande che è il corpo umano. Una tecnologia più
avanzata e potente non può cambiare questa realtà fondamentale.
Qualunque sia il numero di ciechi incaricati di osservare
le varie parti dell’elefante, e per avanzata che sia la tecnologia a loro
disposizione, non ci sarà mai possibile generare le conoscenze necessarie a
vedere l’animale intero.
Quando deploro l’idea di estrapolare una parte dal
contesto dell’intero – che si tratti di una sostanza nutritiva, di un
meccanismo biologico o di qualcosa di diverso – ciò che non approvo è che
studiando singole componenti fuori contesto, ci accechiamo fino a non vedere le
interpretazioni olistiche e le vere soluzioni per la salute umana che queste
interpretazioni potrebbero offrire.
IL PREZZO INTELLETTUALE DELLA VITTORIA RIDUZIONISTA
Spero di aver chiarito che non è mia intenzione propugnare
un ritorno a un’accettazione dogmatica e fideistica di visioni del reale
emanate da qualsiasi autorità.
Al contrario, ciò che asserisco è che nella comunità
scientifica c’è bisogno di meno dogmi e più apertura mentale, quando si tratta
di osservare e descrivere il mondo in cui viviamo.
Uno dei princìpi fondamentali della scienza – l’elemento
chiave che la distingue da ogni altro modo di considerare il mondo – è l’idea
della falsificabilità. Fondamentalmente, se una teoria è falsificabile,
significa che è possibile produrre prove per confutarla. L’atteggiamento
opposto, il dogma, è per definizione qualsiasi cosa sia ritenuta
infalsificabile.
Supponiamo che voi crediate che l’autobus da New York
City a Ithaca arrivi sempre puntuale. Se un giorno l’autobus dovesse arrivare
in stazione con venti minuti di ritardo, presumo che converrete che questo
fatto verrebbe a smentire la vostra teoria. A questo punto potrete rettificarla
affermando che il pullman arriva puntuale “il 95% delle volte”, oppure che arriva
sempre “entro mezz’ora dal tempo previsto”, e poi potremmo concordare su
osservazioni ed esperimenti a sostegno o a discredito di queste nuove teorie.
Ma il punto è che voi accettate a priori che una
configurazione di fatti osservabili possa parzialmente o completamente
invalidare la vostra teoria.
Prendiamo invece in esame la convinzione che esista una
vita dopo la morte in cui i buoni sono ricompensati e i cattivi puniti. Se
chiediamo a chi crede in questo tipo di aldilà quale prova li indurrebbe a mettere
in dubbio questa convinzione, è molto probabile che ci vedremo rivolgere
sguardi confusi.
Una fede di questo tipo non è aperta alla contraddizione
dei fatti.
Anche se non crediamo in una vita dopo la morte,
riusciamo a immaginare un fatto concreto che potrebbe inficiare questa fede?
Non sto affermando che una tale convinzione sia giusta o
sbagliata, ma solo che non si tratta di scienza perché non può essere
dimostrata errata o smentita mediante l’osservazione o la sperimentazione.
Il paradigma riduzionista è un dogma, un articolo di
fede: rifiuta a priori l’idea di non essere sempre l’unico e il miglior modo di
comprendere e misurare la realtà.
E la scienza moderna (in particolare le scienze
biologiche e sanitarie) ha abbracciato il dogma del riduzionismo fino a negare
il buon senso e la correttezza.
Gli individui più rispettati e colti della nostra società
sono addestrati a operare esclusivamente all’interno dei confini di questo
dogma. Per tornare alla nostra metafora: questi individui passano il tempo a
studiare e a descrivere ogni minimo dettaglio dell’elefante senza che uno solo
di loro sia consapevole che esiste un animale che porta quel nome.
La tragedia è che questo è il sistema cui abbiamo
affidato la ricerca della verità e le cui scoperte determinano le nostre
politiche pubbliche e influenzano le nostre scelte private.
Indice
Introduzione
I Parte - SCHIAVI DEL SISTEMA
Capitolo 1 - Il moderno mito della sanità
Capitolo 2 - Tutta la verità
Capitolo 3 - Il mio percorso eretico
II Parte - IL PARADIGMA COME PRIGIONE
Capitolo 4 - Il trionfo del riduzionismo
Capitolo 5 - Il riduzionismo invade la nutrizione
Capitolo 6 - La ricerca riduzionista
Capitolo 7 - La biologia riduzionista
Capitolo 8 - Genetica contro nutrizione – Prima Parte
Capitolo 9 - Genetica contro nutrizione – Seconda Parte
Capitolo 10 - La medicina riduzionista
Capitolo 11 - Riduzionismo e integratori
Capitolo 12 - La politica sociale riduzionista
III Parte - IL POTERE SOTTILE E I SUOI DETENTORI
Capitolo 13 - Comprendere il sistema
Capitolo 14 - Sfruttamento e controllo industriale
Capitolo 15 - Ricerca e profitto
Capitolo 16 - Questioni di media
Capitolo 17 - Disinformazione governativa
Capitolo 18 - Accecati dai portatori di luce
IV Parte - PENSIERI FINALI
Capitolo 19 - Verso una nuova integrità
Note
Indice analitico
Gli Autori
Ringraziamenti
T. Colin Campbell
Whole - Vegetale e Integrale - Libro >> http://goo.gl/evrvoi
Ripensare la scienza della nutrizione
Editore: Macro Edizioni
Data pubblicazione: Settembre 2014
Formato: Libro - Pag 320 - 17x24 cm