Mindfulness: la magia del qui ed ora
Una nuova porta che si apre sul mondo della coscienza
di Marco Capozza e Laura Pieroni - 28/08/2013
Mindfulness: la magia del qui ed ora
Un monaco buddista, inseguito da una tigre, corre, corre,
corre, fino a che davanti a un dirupo non cade. Si aggrappa all’ultimo secondo
a una pianta e, sospeso, con la tigre che ancora lo minaccia, nota davanti a sé
una pianta di fragole con una fragola rossa e matura e pensa: “Toh, una
fragola!”.
I koan sono piccole storie zen il cui scopo è veicolare
una cultura che per propria natura fonda le sue basi sull’esperienza.
Cosa successe dopo al monaco, la storia non ce lo narrerà
mai, quale sia il vero messaggio neanche. Un elemento che spicca è sicuramente
il fatto che il monaco abbia notato la fragola in un momento in cui stava
rischiando la vita.
Minacciato dal vuoto e dalla tigre, la sua attenzione,
che in gergo tecnico definiremmo diffusa, gli permette di notare che davanti a
lui c’è una fragola. Ma provate a fare un esperimento, provate a chiedere a
delle persone cosa notano della storia e se volete anche quale messaggio, quale
morale ha la storia. Probabilmente ogni persona farà delle associazioni con i
suoi ricordi, i suoi giudizi e con le sue visioni di vita, rispondendo cose
diverse l’una dalle altre. Il nostro cervello nasce infatti con la
straordinaria abilità di effettuare connessioni e associazioni con le
informazioni già apprese. È questa abilità che ci permette di astrarre il
ragionamento da una specifica situazione e generalizzarlo riferendolo a diversi
contesti. Un’altra abilità è quella di automatizzare le risposte che proprio
dalle associazioni precedentemente fatte risultano favorevoli. In altre parole
il nostro cervello è molto abile a trovare soluzioni innovative ai problemi che
si trova ad affrontare, basandosi su quello che sa già e creando nuove
associazioni. Se poi la soluzione trovata risulta essere efficace, viene
ricordata e utilizzata ogni volta che ce n’è bisogno e quindi, nel caso si
presenti spesso la stessa situazione, viene automatizzata.
Automatismi: buoni o cattivi?
Il cervello si basa su un principio di economia in cui
ciò che ci è utile viene memorizzato e possibilmente proceduralizzato, viene
cioè reso indipendente dalla nostra attenzione. Si svilupperanno così i nostri
comportamenti automatici, comportamenti che non necessitano di una costante
attenzione nell’eseguirli, come ad esempio guidare la macchina. Dopo anni di
pratica siamo in grado di parlare con il passeggero seduto vicino a noi o
pensare a quello che dobbiamo fare nella serata e in concomitanza guidare senza
prestare attenzione a ogni singolo gesto che facciamo. Ben diversa è la
situazione quando impariamo a guidare: ogni movimento ci appare difficile da
coniugare con gli altri, ricordare la sequenza dei gesti da effettuare è
faticoso e tantomeno la nostra attenzione si distacca da quello che stiamo
facendo. Diverso ma simile è il meccanismo alla base della categorizzazione e
del conseguente giudizio; infatti impariamo a riconoscere gli oggetti, come
anche le situazioni, basandoci su pochi elementi. Siamo in grado di riconoscere
un oggetto familiare con pochi tratti, anche se viene presentato per poche decine
di millisecondi. La velocità di giudizio di una situazione, se la vediamo in
chiave evolutiva, può salvarci la vita. Riconoscere e reagire a una situazione
di pericolo è una abilità importante per la sopravvivenza e nell’evoluzione è
stata decisamente favorita. Il cervello è quindi abituato a sommare gli
elementi e trarne rapidamente un giudizio di massima, questo viene eseguito in
parallelo sia da strutture comprese nel paleoencefalo, sia più lentamente dalla
corteccia. L’obiettivo è quello di capire se la situazione, ad esempio, è
pericolosa o meno e quale reazione è la più indicata. Più sono coinvolte le
strutture antiche come l’amigdala, una piccola area del nostro cervello, più la
reazione comportamentale sarà “cablata” e difficilmente modificabile, tanto che
spesso reagiamo alla paura senza neanche renderci conto di quello che stiamo
facendo. L’amigdala infatti media le risposte vegetative alla paura, innescando
tutte le risposte necessarie alla reazione di fuga o attacco, come il rilascio
di adrenalina.
Con il coinvolgimento della corteccia diveniamo esperti
giudici di situazioni e in più possiamo elaborare, ancora prima che la
situazione possa diventare oggettivamente pericolosa, elementi che ci indicano
se lo può diventare. La necessità di giudicare la realtà diviene, rispetto a
questa visione, la necessità di semplificare il quantitativo di informazioni a
cui siamo esposti, categorizzandole e inserendole in schemi già conosciuti.
Processi di deduzione e induzione ci aiutano a fare ciò, e ci permettono di
vivere senza dover imparare tutti i giorni le stesse cose. Immaginate di
cambiare macchinetta del caffè, sicuramente potreste avvertire qualche
difficoltà se vi sono differenze sostanziali tra il modello vecchio e nuovo, ma
sarete sicuramente più rapidi di chi una macchinetta del caffè non l’ha mai
vista e se poi i modelli si somigliano probabilmente non avvertirete nessuna
difficoltà. Gli automatismi e la generalizzazione ci aiutano ad avere a che
fare con una realtà molto complessa che non si presenta mai uguale, ma in cui
noi riusciamo comunque a muoverci. Automatismi buoni quindi, perché ogni volta
che prendiamo la macchina non dobbiamo imparare a guidare nuovamente.
Cosa ci perdiamo? Ci perdiamo proprio la complessità,
vivere in una realtà che illusoriamente ci figuriamo come completamente
prevedibile e categorizzata non ci lascia apprezzare le differenze, la novità,
la meraviglia di qualcosa che non è mai uguale a se stessa.
La fragola
Ci perdiamo la fragola della storia del nostro monaco,
troppo intenti a prevedere, analizzare, categorizzare, ricordare, dare dei
giudizi o peggio semplicemente non considerare la realtà che ci circonda: dal
momento che tutti i processi precedenti sono ormai automatici, perdiamo il
contatto con il qui ed ora. Il grande rischio è che ci si trovi a vivere una
vita priva di piacere, proiettati nel futuro di quello che deve accadere,
incapaci di prendere in considerazione le sensazioni e le emozioni che, istante
per istante, ci aiutano a scegliere cosa ci piace e cosa no, ci aiutano a
sentire il sapore della vita e ci indicano quale percorso, a parità di senso
logico, intraprendere e quale vale la pena lasciare.
La mindfulness si propone come tecnica – ma sarebbe più
esatto definirla modalità di vita – in grado di aiutarci a ritrovare il
presente. Jon Kabat-Zinn (2003) la definisce come la consapevolezza che emerge
se prestiamo attenzione in modo intenzionale, nel momento presente e in modo
non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza momento per momento. La potremmo
definire in altri termini come meta-consapevolezza, essere consapevoli di
esserlo. Una capacità che distingue l’essere umano da tutti gli altri esseri
viventi. Siamo tutti intrinsecamente mindful, ora più ora meno a secondo dei
momenti, e questa pratica che deriva dalla meditazione zen ci aiuta a coltivare
e raffinare questo stato.
Il qui ed ora
Il passato e il futuro per la mindfulness non esistono,
esiste solo il presente, momento per momento. Nonostante possa essere difficile
accettare un concetto del genere, è interessante la spiegazione che ne viene
data: il passato non esiste più, è passato appunto, e il futuro deve ancora
venire. Per aiutarci a comprendere a fondo cosa si intende, basta pensare come
noi esperiamo il mondo e il tutto può diventare più chiaro. I nostri sensi sono
la porta per conoscere la realtà: la vista, l’udito, l’olfatto, il tatto, il
gusto, ma anche come ha proposto Siegel (2007) la propriocezione (sensazione
del proprio corpo rispetto all’ambiente), la sensazione del proprio mondo
mentale ed emozionale e infine la sensazione relazionale. Questi sensi, che
portano le informazioni dell’ambiente circostante al nostro cervello per essere
elaborate e avere come risultato un’immagine interna di esso, lavorano solo nel
presente.
Sono, come l’olfatto o il gusto, chimicamente stimolati e
trasformano solo nel presente l’informazione in un segnale che le nostre aree
cerebrali possono elaborare. Certo, possiamo pensare al sapore di quel caffè
speciale in quel giorno speciale o siamo in grado di pensare al possibile odore
del caffè di domani mattina, ma questo è un ricordo, non esiste, esiste
solamente nella nostra mente. È utilissimo, specialmente se il caffè nel bar
dove siamo stati ieri non ci è piaciuto, però non è un caffè reale.
Solo nel qui e ora possiamo rispondere alla domanda “come
ti senti?” basandoci sulle sensazioni reali che stiamo provando e che il nostro
cervello sta percependo e non su un’astrazione.
Momento dopo momento, le nostre sensazioni corporee
cambiano e ci danno gli elementi per sentire le nostre emozioni e trasformarle
in pensieri: ho una stretta allo stomaco, sento rabbia, questa situazione mi ha
stancato.
Porre l’attenzione al qui ed ora ci permette di uscire
dagli automatismi che ci portano a vivere una vita con il pilota automatico
inserito, una realtà già pensata, già vista e quindi priva di particolare
interesse. In particolare, la mindfulness promuove l’equilibrio di quattro
flussi di consapevolezza: la sensazione, l’osservazione, la concettualizzazione
e la conoscenza, equilibrio che ci permette di raggiungere uno stato di
meta-consapevolezza. Porre attenzione a questi quattro flussi di consapevolezza
è un modo per far si che ciò che sappiamo del mondo non ci limiti nel prendere
in considerazione ciò di cui stiamo facendo ora esperienza...
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Data pubblicazione: Agosto 2010
Formato: Rivista -